Economia

Rapporto Confindustria. Mezzogiorno di fuoco per le imprese

Giuseppe Matarazzo sabato 28 dicembre 2013
I numeri sono da bollettino di guerra. L’economia del Mezzogiorno già fortemente depressa di suo, al termine di sei anni di crisi, dal 2007 al 2013, si è polverizzata: persi 43,7 miliardi di euro di Pil, 30mila imprese e 600mila posti di lavoro. I dati arrivano da Confindustria – Studi e Ricerche per il Mezzogiorno pubblicati nel volume "Check up Mezzogiorno". Un’analisi dettagliata che fa emergere le difficoltà del Meridione a superare l’ultima coda della crisi, quella di quest’anno, con una impressionante moria di imprese: nei primi nove mesi del 2013, quasi 100mila imprese hanno cessato la loro attività, a un ritmo di 366 cessazioni al giorno. Ben 2.527 sono le aziende fallite. Confrontando, aperture e cessazioni dal 2007 al 2013, si sono "perse" circa 30mila imprese, di cui circa 15mila solo nei primi 9 mesi del 2013. Un confronto che dà l’idea di quanto stia succedendo oggi al Sud.Eppure dal check up emergono anche alcuni segnali che indicano un rallentamento della caduta. Fra gli indici di speranza, l’aumento delle società di capitali (+3,2% nel 2013) e il raddoppio delle imprese aderenti a contratti di rete, mentre il clima di fiducia delle imprese del Sud è tornato ai livelli dell’estate 2011. Durante la crisi alcune aziende si sono anche rafforzate: si tratta delle imprese di media dimensione, che vedono crescere il proprio fatturato (+8,2%), così come le grandi imprese (escluse le raffinerie), che lo accrescono seppur di poco. A pagare la crisi sono invece le piccole aziende con un calo del 9,3% tra il 2007 ed il 2012. Sia le une sia le altre soffrono il credit crunch: gli impieghi nel Mezzogiorno continuano a scendere (9,3 miliardi in meno rispetto al 2012), mentre i crediti in sofferenza hanno superato i 31 miliardi, cioè l’11,1% del totale. L’andamento dell’export spiega una parte dei risultati: le esportazioni si sono ridotte nel III trimestre 2013 del 9,4% rispetto al III trimestre 2012. Si tratta di risultati condizionati dal calo della siderurgia e degli idrocarburi, mentre segnali positivi fanno registrare i prodotti alimentari e quelli chimici.In un Mezzogiorno che viaggia a livelli di disoccupazione record, soprattutto fra i giovani (oltre il 47%), è evidente che serve un’inversione di marcia. Che deve partire dal Sud stesso. Da una nuova cultura, da nuove politiche, da nuove classi dirigenti che liberino il territorio dallo schiavismo della clientela e dell’assistenza. Una grande opportunità sprecata negli ultimi vent’anni è stata quella dei fondi europei. Miliardi dispersi in mille rivoli, utilizzati come sostitutivi dei fondi ordinari per garantire l’esistente e non come aggiuntivi per creare sviluppo. Per il Sud è l’ultima chiamata. Nella ripresa del Sud, sottolinea lo studio Confindustria-Srm, un ruolo importante lo potranno giocare proprio le risorse disposte dalla politica di coesione, nazionale e comunitaria, se verranno «immesse rapidamente nel circuito economico». Sono circa 60 i miliardi di euro, tra risorse dei fondi strutturali 2007-13, del Piano d’Azione Coesione, del Fondo Sviluppo e Coesione, che potrebbero essere rapidamente trasformati in investimenti pubblici e privati, e costituire un volano straordinario di crescita economica. Senza contare le risorse del ciclo di programmazione 2014-2020 che sta per aprirsi. Su questo sta lavorando in particolare il ministro Carlo Trigilia, che proprio ieri, in Consiglio dei ministri ha presentato una informativa sugli interventi urgenti a sostegno della crescita con una riprogrammazione di fondi Ue per 6,2 miliardi. Lo stesso ministro, parlando a Palermo per la presentazione del rapporto 2013 della Fondazione Res, giorni fa, ha rilevato come «spesso i comportamenti della pubblica amministrazione non sono efficaci e efficienti, questo genera una minore fiducia negli operatori». Un sistema che non aiuta a generare sviluppo. «Siamo tecnicamente in fondo a un ciclo – ha detto il presidente della Svimez, Adriano Giannola – perché pare che peggio di così non si possa andare, ma la luce in fondo al tunnel è davvero flebile, in coerenza con le attuali politiche: siamo tornati indietro di quasi 20 anni al Sud, con situazioni completamente diverse rispetto all’Europa». Con un problema "silenzioso" che riguarda i pesanti tassi di emigrazione giovanile: «Restare o partire – osserva Giannola – dipende molto dall’ambiente in cui si vive e da quanto un territorio riesce a offrire in termini di sviluppo, di sperimentazione e di propensione all’innovazione». Il rischio è la desertificazione, industriale e umana, di un pezzo di Paese. «Bisogna resettare tutto, l’Italia non può restare in questa situazione».