Economia

Marchionne. Spregiudicato e realista, così ha sedotto la politica senza farsi sedurre

Alberto Caprotti martedì 24 luglio 2018

Parlandone da vivo, ma come se già non lo fosse più, il mondo da giorni sta scrivendo di lui un necrologio anticipato e quasi unanimemente entusiastico. Già questa dovrebbe essere un’imbarazzante anomalia, affrontata invece da tutti con la stessa cinica spregiudicatezza con cui Sergio Marchionne ha preso di petto il suo mestiere. Quello di manager, probabilmente uno dei più grandi che l’Italia abbia mai avuto, e che l’Italia avrebbe potuto sfruttare a suo vantaggio. Esattamente come ha fatto con lui la Fiat, un’azienda tecnicamente fallita e con miliardi di debiti, trasformata con abilità, pazienza e spregiudicatezza in una realtà sana, potente e con l’indebitamento azzerato.

La storia non si è mai fatta con i "se" ed è intuitivo che il nostro Paese possa essere una realtà ancora più complessa di quella che è stata la sua prima industria automobilistica, ma l’affinità dei problemi, la voragine dei conti e la disperata necessità di uomini-guida di polso e di spessore, rendono affini l’azienda Italia e la ex Fca, accentuando il rimpianto per la mancata discesa in politica di un uomo che avrebbe potuto fare molto anche lontano da ruote e carburatori. La tentazione, e la proposta, in realtà ci sono state. Giusto un anno fa, il ritorno di Berlusconi fece balenare l’ipotesi di un accostamento tutt’altro che impossibile. Ma Marchionne chiarì subito la sua posizione: «Berlusconi è un grande», spiegò, «ha spiazzato tutti, ma alla politica io non ci penso neanche di notte…».

Forse aveva ragione. Anche un abile stratega come l’ex ad di Fiat-Chrysler sarebbe stato ingabbiato nel tritacarne dei partiti che avrebbero probabilmente fiaccato la sua dote più grande, quel decisionismo con cui ha tenuto in piedi e risanato l’azienda degli Agnelli. Eppure la politica avrebbe tratto un grande giovamento dal realismo e dalle visioni di Marchionne, come quando capì che un grande gruppo industriale doveva per forza guardare più lontano, anche abbandonando Confindustria e scavalcando così un sindacato troppo radicalizzato e non più al passo con i tempi e le dinamiche attuali. Con discutibile cinismo, Marchionne ha utilizzato la politica senza prendervi parte, e senza prendere parte. Stando sempre cioè dal lato di chi reggeva il manico, come quando si è scostato da Renzi dopo averlo avuto come alleato strategico. O salutato Mario Manti come fosse un salvatore della Patria. Da abile politico mancato, Marchionne ha estratto più valore possibile da tutto ciò che la storia della Fiat gli consegnava: il lusso di Ferrari e Maserati, la 500 e il suo potere iconico. E con cinismo quasi crudele ha lasciato che i rami secchi si staccassero, non muovendo un dito per risollevare Lancia, e assistendo con rabbiosa rassegnazione all’unica vera incompiuta del suo mandato, il pieno rilancio di Alfa Romeo.

In un mondo come quello dell’automobile, diventato sempre più competitivo, ha dovuto sacrificare l’identità nazionale di Fiat per entrare in una dimensione mondiale, dimensione alla quale anche l’Avvocato aspirava senza essere mai riuscito a raggiungerla, e che ha provocato seri problemi occupazionali in Italia. Ma non è certo colpa di Marchionne se il mercato del lavoro in Italia non è competitivo: lui da manager con un mandato da assolvere, ne ha preso atto. E come chiunque debba pensare al bene delle persone che rappresenta, ha agito di conseguenza. Con diabolica abilità. Ha venduto la Fiat alla Chrysler, facendo finta che avvenisse il contrario. Ha spostato cassaforte e testa a Londra e Amsterdam. Ha tenuto il minimo indispensabile in Italia. Ha usato la finanza al servizio dell’industria. Ha sradicato i marchi dalla Fiat, li ha quotati, arricchendo se stesso e gli azionisti.Marchionne è un gigante senza essere un santo. E non sapere se e come un simile talento manageriale avrebbe potuto essere messo al servizio del Paese invece che di una sola famiglia, resterà comunque un rammarico lungo da cancellare.