Galassia Agnelli. Marchionne lascia, Manley nuovo ad di Fca. Elkann presidente Ferrari
Sergio Marchionne (Ansa)
Sergio Marchionne lascia gli incarichi nella «galassia Agnelli», Mike Manley, alla guida il marchio Jeep dal 2009 e Ram dal 2015, è il nuovo amministratore delegato di Fca. In quanto alla Ferrari alla presidenza è stato nominato John Elkann, mentre per l'amministratore delegato la scelta è caduta su Louis Carey Camilleri, che dovrà essere ratificato dall'assemblea degli azionisti.
I Cda di Fca, Ferrari e Cnh industrial, convocati d'urgenza, visto il prolungarsi della degenza per l'intervento chirurgico subito dal manager a fine giugno, hanno scelto i successori. Nel contempo Fca fa sapere che le condizioni di salute di Marchionne sono peggiorate e che a causa di complicazioni inattese durante la convalescenza "non potrà riprendere la sua attività lavorativa".
Alla guida di Cnh Industrial (veicoli industriali, bus, movimento terra, mezzi agricoli...) è stata invece chiamata Suzanne Heywood, scelta come nuova presidente. Il Ceo sarà nominato in seguito e nel frattempo Derek Neilson proseguirà nell'incarico di Ceo ad interim.
Chi è Mike Manley
Nato a Edenbridge, Regno Unito, 54 anni, Manley ha un Master of Business Administration dall'Ashridge Management College.
È entrato a fare parte di DaimlerChrysler nel 2000 in qualità di Direttore Sviluppo Rete per DaimlerChrysler United Kingdom, portando la sua lunga esperienza nel business della distribuzione internazionale dell'automobile. Da dicembre 2008 è stato Executive Vice President - International Sales e Global Product Planning Operations. In questa posizione, è stato responsabile della pianificazione prodotto e di tutte le attività di vendita al di fuori del Nord America.
È stato nominato president and Chief Executive Officer del marchio Jeep in Chrysler Group LLC a giugno del 2009. Dal settembre 2011 è inoltre membro del Group Executive Council (GEC) e, dall'ottobre 2015, Head of Ram Brand. In precedenza, Manley ha ricoperto il ruolo di Chief Operating Officer Asia (APAC). Ha inoltre diretto le attività internazionali di Chrysler fuori dell'area NAFTA con la responsabilità di implementare gli accordi di cooperazione per la distribuzione dei prodotti del Gruppo Chrysler attraverso il network internazionale di Fiat.
Chi è Louis Carey Camilleri
Il suo nome compare spesso nelle cronache finanziarie accanto a prestigiosi incarichi. Eppure in tanti anni al vertice di Philip Morris e di altre importanti società, le interviste a Louis Carey Camilleri si contano sulle dita di una mano, le foto ancora meno. Ed è forse per il suo basso profilo, in linea con il migliore stile sabaudo, oltre che per il solido curriculum internazionale, che l'uomo d'affari è stato scelto per la successione in Ferrari di Sergio Marchionne come amministratore delegato.
Nato ad Alessandria d'Egitto da famiglia maltese, 63 anni, è lui il manager individuato per la carica di amministratore delegato del Cavallino rampante, di cui era membro del board già da alcuni anni.
Studi di economia e business in Inghilterra e in Svizzera, a Losanna, dove si è laureato, la carriera di Camilleri inizia da lontano. Lavora con WR Grace and Company come analista di business, ruolo che ricopre anche all'assunzione in Philip Morris, nel 1978. Chi lo conosce ne parla come di una straordinaria mente finanziaria, qualità che gli consente di salire in pochi anni i gradini del successo. Nel 1995 diventa presidente e amministratore delegato di Kfraft Foods, azienda nella galassia del tycoon del tabacco, di cui un anno dopo è vicepresidente senior e direttore finanziario e, successivamente, presidente e amministratore delegato. Uno dei più pagati in America, con uno stipendio di quasi 10 milioni di dollari l'anno che gli hanno permesso di accumulare un patrimonio stimato in 150 milioni di sterline.
L'amicizia con Marchionne nasce quando il manager col maglioncino entra nel cda della società leeder nel settore del tabacco e prosegue con l'ingresso di Camilleri nel board della Ferrari, che il manager frequentava già da presidente della Philip Morris - storico sponsor della scuderia del Cavallino - invitato fisso alle cene di gala che a Monza precedevano il Gran Premio d'Italia.
Uomo brillante, a dispetto della scarsa visibilità, capace di intrattenere conversazioni in quattro lingue, Camilleri ha avuto tre figli dalla moglie Marjolyn, che ha lasciato nel 2004.
Il ritratto di Sergio Marchionne
«Una persona molto speciale». Così l'ex presidente di Ifil, Gianluigi Gabetti, ha definito Sergio Marchionne ricordando Umberto Agnelli, che gli aveva indicato per Fiat il manager allora cinquantenne. Gli oltre 14 anni di storia tra Marchionne e il Lingotto iniziano infatti nel maggio del 2003, quando l'italo-canadese entra da indipendente nel cda di un casa auto sull'orlo della bancarotta. Il manager arriva dalla ginevrina Sgs, società nell'orbita della famiglia Agnelli, risanata in soli due anni. Nel giugno 2004 diventa a.d. Fiat al posto di Giuseppe Morchio. E vince la prima sfida. Con gli 1,55 miliardi di euro pagati da Gm per rompere l'alleanza con il Lingotto, il nuovo capo azienda inizia il rilancio di Fiat con i nuovi modelli.
Di certo Marchionne, per anni accanito fumatore - ha smesso di recente -, non è una figura usuale. Ironico, forte e diretto, il suo dress-code non passa inosservato. In ciascuna delle sue case negli Stati Uniti, in Svizzera e a Torino ha oltre 30 maglioncini blu tutti uguali, che indossa in ogni occasione al posto della giacca e la cravatta. Si ricordano tre eccezioni. Quando si presenta alla stampa, quando va in Senato a riferire, dove la giacca e la cravatta sono obbligatorie, e alla presentazione dell'ultimo piano industriale dello scorso primo giugno, a Balocco. Ma in questa occasione mette una cravatta Ermenegildo Zegna solo per celebrare il target di 'zero debito', uno delle tante sfide vinte dall'a.d., di cui si ricorda anche una parentesi, nel 2012, con la barba.
«Chi comanda è solo. Io mi sento molte volte solo», dice una volta Marchionne, cui non manca la forza di prendere scelte difficili. Appena diventato numero uno modifica le catene di comando, dimezza i livelli gerarchici da nove a cinque e introduce il 'tu' invece del 'lei', cambiando una struttura ingessata. Vuole una «flessibilità bestiale» ed evita le «linee prevedibili» per superare i concorrenti. Dopo il blitz del 2009, porta nel 2014 Fiat a ingoiare il 100% di Chrysler, facendola diventare Fca, il settimo produttore mondiale. E da Detroit lancia un piano ambizioso di cui i frutti sono attesi alla fine di quest'anno. Una scalata, quella a Chrysler, condotta tra la crisi europea, gli attacchi politici in Italia e le diffidenze degli analisti. Marchionne tira dritto e si guadagna copertina di 'Time', che lo chiama lo Steve Jobs dell'auto, e il plauso del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che lo trasforma in icona della ripresa dell'auto a stelle e strisce. E ultimamente si sente dare anche del «preferito» del nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, per i suoi investimenti in Usa.
D'altra parte, Fca per il pragmatico Marchionne è sempre «governativa». E nonostante questo, dopo il rilancio delle linee di montaggio con i successi della Nuova Cinquecento e della Grande Punto, nel 2006 Marchionne riesce persino a farsi dare del «borghese buono» dal segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti. Nel 2010, invece, il manager con il maglioncino dà una scossa alle relazioni industriali. Fiat straccia il contratto nazionale ed esce da Confindustria. Sono gli anni dei durissimi scontri con la Fiom del segretario generale, Maurizio Landini, che porta il gruppo in tribunale ed è l'unico dei grandi sindacati a non firmare il nuovo contratto aziendale che sarà approvato dal referendum dei lavoratori.
Abruzzese d'origine, nato a Chieti nel 1952, Marchionne impara la cultura del lavoro in Canada, dove si trasferisce all'età di 14 anni con il padre, carabiniere in pensione in cerca di opportunità per i figli. Da giovane Marchionne passa le serate a giocare a scopa, briscola e poker nell'associazione carabinieri. Da amministratore delegato, invece, si alza alle cinque del mattino e legge per un paio d'ore i giornali. Prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi quelli italiani, di cui non condivide le troppe pagine di politica. Per il manager la lingua italiana «è troppo complessa e lenta» e se «un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei».
Le frasi e il pensiero del manager Marchionne
Ecco alcune delle sue frasi più note:
FIAT
'Ho cercato di organizzare il caos. Ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un'istituzione del paese in cui sono cresciuto'.
'Un leader Fiat per me deve avere la capacità di accettare il cambiamento, di gestire le persone che dipendono da lui e di convertire i ventimila capi intermedi del gruppo'.
'Juventus e Fiat sono esempi dell'eccellenza italiana nel mondo e, oltre alla popolarità, condividono alcuni valori fondamentali: l'importanza della squadra e delle persone, l'ambizione di puntare a risultati eccellenti, lo spirito competitivo e la coscienza che il successo non è mai permanente, ma va conquistato ogni giorno'.
'Ho letto in questi anni molti libri sul legame tra la Fiat e l'Italia. La tesi generale è che se la Fiat va bene, l'economia italiana tira, aumentano le esportazioni, aumenta il reddito, crescono i posti di lavoro. Insomma, ciò che è bene per la Fiat è bene anche per l'Italia. Credo sia vero, perlomeno in parte, e comunque ci impegneremo perché ciò accada. Ma credo sia ancora più vero il contrario: ciò che è bene per l'Italia è bene per la Fiat'.
'Per un mese sono andato ogni domenica a Mirafiori. Era come una casa dimenticata dalla sua famiglia, i costumi da bagno sbattuti assieme agli scarponi da sci, i libri in terra, il cibo con la muffa nel frigorifero. Siamo riusciti a ricreare una cultura della produzione che Fiat aveva perduto, a smentire chi diceva che le nostre auto era più facile comprarle che farle'.
'Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose, stia a sentirmi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato'.
'Decidere di portare nuova Panda a Pomigliano non è stata una scelta basata su principi economici e razionali. Non era - e non è - la soluzione ottimale da un punto di vista puramente industriale. Lo abbiamo fatto considerando la storia della Fiat in Italia, quello che da sempre rappresenta e il rapporto privilegiato che ha con il Paese. Lo abbiamo fatto perché, nel limite del possibile, riteniamo sia nostro dovere privilegiare il Paese in cui Fiat ha le proprie radici'.
'In tutta sincerità non riesco a vedere un mio futuro dopo la Fiat. Non è la prima azienda che ho risanato, ma è senza dubbio quella che credo mi stia permettendo di esercitare tutte le mie capacità. Temo di non avere dentro di me l'energia per un altro ciclo di questa intensità'.
FILOSOFIA E MANAGEMENT
'La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La 'collective guilt', la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo'.
'Concentrarsi su se stessi è una così piccola ambizione'.
'Non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose non vanno male. Dobbiamo essere paranoici. Il percorso è difficilissimo. Siamo dei sopravvissuti e l'onore dei sopravvissuti è sopravvivere'.
'I leader, i grandi leader, sono persone che hanno una capacità fenomenale di disegnare e ridisegnare relazioni di collaborazione creativa all'interno dei loro team'.
'Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa fate duri una vita intera o perfino più a lungo'.
'Il diritto a guidare l'azienda è un privilegio e come tale è concesso soltanto a coloro che hanno dimostrato o dimostrano il potenziale a essere leader e che producono risultati concreti di prestazioni di business'.
'Il carisma non è tutto. Come la bellezza nelle donne: alla lunga non basta'.
'Quando uno si alza, il contegno è molto importante. Bisogna alzarsi dal tavolo facendo valere il punto, ma lasciando capire che alla fine ti risiederai. Ti devi alzare calmo, anche se sei incavolato'.
'Quello che ho imparato da tutte le esperienze di amministratore delegato negli ultimi dieci anni è che la cultura aziendale non è solo un elemento della partita, ma è la partita stessa. Le organizzazioni, in sintesi, non sono null'altro che l'insieme della volontà collettiva e delle aspirazioni delle persone coinvolte'.
'Se ho un metodo è un metodo che si ispira a una flessibilità bestiale con una sola caratteristica destinata alla concorrenza: essere disegnato per rispondere alle esigenze del mercato. Se viene meno a questa regola è un metodo che non vale un tubo'.
'Quando ho iniziato l'università, in Canada, ho scelto filosofia. L'ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Poi ho continuato studiando tutt'altro e ho fatto prima il commercialista, poi l'avvocato. E ho seguito tante altre strade, passando per la finanza, prima di arrivare a occuparmi di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi e oggi di automobili. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro'.
'Questa è la cosa che mi fa incazzare di più. 'Manager canadese', è l'ultima di tutta una serie che arriva a dipingermi come anti-italiano, pur di minare la mia identità di manager. Io ho il passaporto italiano, esattamente come lei'.
'Io sono così. Il tizio con il maglione. Almeno non mi confondo la mattina nell'armadio. I miei maglioni hanno un piccolo tricolore sulla manica. E lo porto con orgoglio, io'.
ITALIA
'L'Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione'.
'Qualsiasi debito verso lo Stato è stato ripagato in Italia, non voglio ricevere un grazie, ma non accetto che mi si dica che chiedo assistenza finanziaria'.
'Di nuovi modelli ne abbiamo quanti se ne vuole, dobbiamo però dare ai nostri stabilimenti la possibilità di produrre ed esportare, gli impianti devono essere competitivi, altrimenti non possono produrre e vendere niente'.
'La prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere quella assistenziale. La cultura dell'assistenzialismo produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità'.
'L'Abruzzo è la mia terra. Sono nato qui, a Chieti. Qui ho fatto i miei primi otto anni di scuola. E forse, se non fossi emigrato in Canada con la mia famiglia all'età di quattordici anni, avrei frequentato anche questa università. Sono dovuti passare quarant'anni e altre due nazioni - la Francia e la Svizzera - prima che la vita mi riportasse in Italia'.
'Qualche ragione c'è se gli investimenti esteri sono ancora così bassi. E queste ragioni si chiamano burocrazia, servizi, infrastrutture, tasse e costi di gestione. Dalla mia esperienza personale, ho visto che i vincoli burocratici alla fine proteggono aziende inefficienti, aziende che non hanno prospettive di sviluppo e nella maggior parte dei casi scaricano i costi sui clienti'.
'La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei'.
'Storicamente, in Italia, per accontentare tutti, abbiamo sempre accettato compromessi e mediazioni, e abbiamo esaltato forme di attività corporative che hanno minimizzato il cambiamento. È questo atteggiamento che ha frenato l'Italia nel diventare un Paese competitivo. È questo atteggiamento che rende gli investimenti stranieri in Italia scarsi e rari. È questo atteggiamento che, perlomeno in parte, continua a tenere l'Italia in posizione difensiva e imbarazzata verso il resto dell'Europa'.
'Le accuse di anti-italianità che ho spesso sentito sono semplicemente assurde. Anti-italiano semmai è chi abbandona il Paese, chi decide di non investire. Anti-italiano è chi non vuole prendere atto del mondo che ci circonda e preferisce restare isolato nel proprio passato. Anti-italiano è chi perde tempo a discutere e rinviare i problemi, chi non si assume la responsabilità di cambiare le cose, di guardare avanti e agire'.
LAVORATORI
'Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi'.
'Dei miei collaboratori faccio valutazioni continue, ogni giorno do loro i voti. Oggi è otto, domani magari cinque'.
'Ai miei collaboratori, al gruppo di ragazzi che sta rilanciando la Fiat, raccomando sempre di non seguire linee prevedibili, perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti. E magari arriveranno prima di noi'.
'Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant'anni'.
'Non è licenziando che si diventa più efficienti. Non è il costo del lavoro di per sé che fa la differenza tra un'azienda competitiva e una relegata ai margini del mercato'.
SU DI LUI
'Dobbiamo puntare ai borghesi buoni. Marchionne parla della risposta ai problemi dell'impresa, non scaricando sui lavoratori e sul sindacato, ma assumendola su di sé'. (Fausto Bertinotti)
'Alcuni intellettuali e politici hanno etichettato Marchionne come 'cattivo manager', che investe poco e punta solo ad abbattere il costo del lavoro. C'è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse sono superficiali. In un certo senso potremmo considerarle simmetriche all'affrettato elogio del 'capitalista buono' che gli veniva rivolto non moltissimo tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché a un manager viene concesso, questi minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove le opportunità di sfruttamento del lavoro e i relativi profitti sono maggiori'. (Emiliano Brancaccio)
'Il vero problema della Fiat non sono i lavoratori, l'Italia o la crisi (che sicuramente esiste): il vero problema sono i suoi azionisti di riferimento e il suo amministratore delegato'. (Diego Della Valle) 'Il mago Otelma delle 4 ruote, che non fa una macchina, mentre gli imprenditori si misurano dai loro prodotti'. (Diego Della Valle)
'Ha restituito al nostro sistema industriale un gruppo in grado di essere competitivo rappresentando un elemento di forza nel contesto internazionale'. (Pietro Modiano, banchiere)
'Appartiene a un gruppo di italiani che hanno avuto il merito di non lasciarsi imprigionare in quel complicato intreccio di compromessi, patti di reciproca convenienza, luoghi comuni, che formano il retaggio di un'Italia bizantina, arcadica, conformista e contro-riformista. Per restare nell'ambito del secondo dopoguerra penso, per fare soltanto qualche esempio, a Ugo La Malfa, Guido Carli, Cesare Merzagora, Mario Monti'. (Sergio Romano)
'Marchionne rimane l'uomo che ha preso quella macchina ingrippata che era diventata la Fiat e l'ha salvata'. (Sergio Chiamparino)
'Sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat. Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne'. (Raffaele Bonanni, ex segretario generale Cisl)