Analisi. Lotta alla povertà, la sfida è in stallo: Africa e Sudamerica cuore dei divari
La battaglia che stiamo perdendo è quella di una bambina che non potrà andare a scuola, di una mamma che non riuscirà a sfamare i propri figli, di un anziano che non sarà in grado di curarsi. È la battaglia della disuguaglianza che avanza, in un mondo in cui la povertà va concentrandosi sempre più in specifiche regioni del pianeta e che vede intrappolate comunità intere in sfide più grandi di loro. Perché se qualche caso di successo c’è stato, nella lotta globale alla povertà, gli ultimi dati ci dicono che l’obiettivo globale di eliminare entro il 2030 la miseria estrema – definita dalla possibilità di disporre di 2,15 dollari al giorno – è sempre più fuori dalla nostra portata. Il che non vuol dire restare immobili, ma anzi premere sempre più verso percorsi accelerati e soluzioni diverse, tra investimenti e partenariati concreti. Al ritmo attuale ci vorrebbero oltre tre decenni per raggiungere l’obiettivo, soprattutto nei Paesi più vulnerabili dell’Africa sub-sahariana. Quasi 700 milioni di persone nel mondo – l’8,5 per cento della popolazione globale – vive (meglio, sopravvive) con meno di quella cifra. E la quota nel 2030 non sarà tanto diversa, proiettandosi al 7,3% degli abitanti del pianeta.
Info Grafica
E se provassimo addirittura ad alzare l’asticella? Considerando la cifra di certo non stellare di 6,85 dollari al giorno, ritenuta la soglia di povertà nei Paesi a medio-alto reddito, ben il 44% della popolazione globale risulterebbe povera. Un dato che non ha subito alcun sostanziale cambiamento dal 1990 ad oggi anche a causa dell’aumento della popolazione globale: su quel livello di povertà, insomma, siamo fermi da 34 anni, tanto che ai ritmi attuali servirebbe oltre un secolo per raggiungere il risultato.
Per quanto riguarda la lotta alla povertà estrema, l’intero decennio 2020-2030 rischia di essere un decennio perso. Le tabelle contenute nel rapporto “Povertà, prosperità e pianeta” diffuso ieri da Banca mondiale – la prima analisi post-Covid dell’istituto relativa ai progressi globali su questo fronte – mostrano chiaramente un appiattimento della curva nella diminuzione del tasso di povertà già a partire dal 2018. Siamo in una fase di completo stallo, insomma, e non si intravedono soluzioni facili a breve termine. D’altronde già altre ricerche di questi anni hanno mostrato come l’onda lunga della policrisi post-pandemica abbia avuto riflessi importanti sull’insicurezza alimentare, la sanità, i servizi di base in genere. Conflitti, cambiamento climatico e rallentamento globale dell’economia, ognuno per la sua parte e incrociando i loro effetti, continuano a ridefinire priorità e a drenare risorse, mentre molti Paesi vulnerabili, in Africa ma non solo, vedono ingigantirsi il loro debito.
Per restare al continente nero, permane un divario significativo tra i flussi finanziari internazionali necessari e quelli effettivi per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici: si parla di un ammontare di 5-10 volte inferiore a quello ritenuto indispensabile. Si stima che gli attuali costi di adattamento in Africa siano compresi tra i 7 e i 15 miliardi di dollari all’anno, con proiezioni che suggeriscono che potrebbero salire a 35 miliardi di dollari all’anno entro il 2040 e fino a 200 miliardi di dollari all’anno entro il 2070 se il riscaldamento del pianeta supererà i 2°C. Se non verranno implementate misure di adattamento al cambiamento climatico, i costi potrebbero aumentare fino al 7% del Pil africano entro il 2100. Costi che potrebbero crescere anche per l’intera regione dell’Asia meridionale, in cui gli esperti calcolano che il 32 per cento della popolazione sia ad alto rischio di eventi climatici estremi, rispetto, ad esempio all’1 per cento degli abitanti del Nordamerica.
Un divario che va di pari passo con quello della ricchezza, considerando che i due terzi della povertà estrema riguarda la popolazione sub-sahariana e che, in generale, i Paesi fragili contano, a questo proposito, per il 70%. Se, a livello globale, il numero degli Stati che registrano alti livelli di disuguaglianza è calato in un decennio da 61 a 49 – stando ai calcoli effettuati secondo il coefficiente di Gini –, va evidenziato che i divari maggiori sono ormai concentrati in due regioni: Africa sub-sahariana e America latina e Caraibi. In queste due zone del mondo, casa di 1,7 miliardi di persone, circa un quinto della popolazione mondiale, la disuguaglianza insomma non cala. Di più: solo il 7 per cento della popolazione globale vive in economie con bassi livelli di divari.
Negli ultimi anni nuove difficoltà, evidenziano ancora gli esperti di Banca mondiale, stanno emergendo peraltro anche nei Paesi a medio reddito, quelli che sono riusciti cioè ad elevare i loro livelli di ricchezza e a ridurre la povertà estrema. Questi Stati stanno infatti faticando ad accelerare i loro progressi e la crescita economica e a migliorare le loro capacità produttive. Nei Paesi a basso reddito, d’altro canto, si fa preponderante la mancanza di investimenti per infrastrutture di base e servizi sociali, con gap educativi, mancanza di energia elettrica, scarsa sanità di base. Il pagamento degli interessi sul debito, che ha raggiunto un record storico, sottrae risorse: nel 2024 in Africa i soli interessi ammonteranno a 163 miliardi di dollari, rispetto ai 61 miliardi del 2010.
Il rafforzamento della cooperazione internazionale e l’incremento dei finanziamenti per lo sviluppo, dalla formazione alle infrastrutture, restano fondamentali, secondo gli analisti, per il successo di una transizione verso economie più sostenibili, inclusive e resilienti. Cruciale sarà un approccio incrociato. «Le politiche per ridurre l’inquinamento atmosferico, ad esempio, contribuiscono sia agli obiettivi climatici che a quelli di sviluppo – sottolinea Indermit Gill, capo economista di Banca mondiale –. Investimenti sostenuti nell’istruzione e nella sanità forniscono maggiori risultati legati alla povertà e alla ricchezza nei Paesi in via di sviluppo rispetto ai programmi di assistenza sociale finanziati dalle tasse. E iniziative governative ben attuate per aumentare la capacità degli agricoltori di adottare nuove tecnologie rispettose del clima possono ridurre la povertà, diffondere la prosperità e preservare il pianeta».