Economia

Lavoro. In ufficio anche quando stanno male: Londra contro i "presenteisti"

Angela Napoletano - Londra martedì 13 agosto 2024

Non esiste ancora una definizione univoca di "presenteismo". Il termine è stato coniato a metà degli anni ’50 ma è solo alla fine degli anni ’70 che ha cominciato a circolare tra gli esperti di organizzazione e cultura aziendale di tutto il mondo. Per alcuni significa passare più tempo in ufficio di quanto previsto dai propri orari. Nella realtà anglosassone è invece riferito a quanti timbrano il cartellino pur non essendo nelle condizioni psicofisiche, per malattia o altro, di affrontare con serenità una normale giornata di lavoro. In entrambi i casi, ciò che fa del presenteismo un problema serio, oltre che sempre più diffuso (anche in Italia), è la perdita di produttività. Ovvero il peso economico di processi rallentati o decisioni sbagliate di dipendenti stanchi, distratti o febbricitanti.

Uno studio pubblicato a fine luglio dall’Institute for Public Policy Research ha rivelato che nel Regno Unito il costo del presenteismo “all’inglese” è aumentato in sei anni di 25 miliardi di sterline, a oltre 100 miliardi. Numeri che ne fanno, addirittura, un problema molto più grave dell’assenteismo (che alle imprese costa meno della metà) oltre che tra i livelli più alti di tutti gli altri Paesi dell’Ocse e dell’Unione Europa. L’anno scorso, la produttività erosa dai dipendenti che vanno al lavoro pur non essendo nelle condizioni di farlo è di 44 giorni. Nel 2018 erano 35, per fare un paragone, e 20 nel 2014. Stima che tiene conto anche del rischio che l’impiegato sviluppi ulteriori malattie o che, peggio, le trasmetta ai colleghi innescando il cosiddetto ciclo di «presenteismo contagioso».

Le ragioni del presenteismo

Quali sono, ci si chiede, le motivazioni all’origine del problema? Il think tank londinese ne cita alcune: cattiva cultura lavorativa, insicurezza finanziaria e accesso limitato alla retribuzione per malattia. Quest’ultima è tra le più basse d’Europa, 116,75 sterline a settimana, e scatta solo dopo tre giorni di assenza. Certo, non è escluso che ci siano persone che associano la presenza al lavoro con la possibilità di una promozione. Ma le criticità segnalate dalla ricerca sono più che altro sintomi di un mondo del lavoro che non funziona come dovrebbe. Soprattutto nell’ambito delle professioni non qualificate e più esposte alla precarietà. I più inclini ad uscire di casa con la febbre per onorare il contratto sono, non a caso, proprio i cittadini privi di certificati di alta istruzione e a basso reddito. Difficile parlarne come di stakanovisti che ambiscono a scatti di carriera. Sono spesso contaminate dal presenteismo anche le realtà imprenditoriali caratterizzate da grandi carichi di lavoro. Circostanza molto diffusa a causa della cronica mancanza di personale che costringe alcuni addetti a doppie mansioni. C’è chi pensa che non sia giusto, assentandosi, scaricare sui colleghi già stressati il peso di altre incombenze.

I possibili rimedi

Come intervenire? Secondo Paul Devoy, presidente dell’associazione Investors in People, è necessario «sostenere e migliorare la cultura del benessere nelle aziende, facendo capire ai datori di lavoro che ha benefici a lungo termine anche per loro». La salute, in sostanza, deve tornare a essere un asset per le imprese, non un costo nascosto di cui preoccuparsi. Gli esperti suggeriscono incentivi fiscali per quelle che si impegnano in questo senso migliorando, se possibile, anche la retribuzione e la flessibilità che è stata sperimentata durante la pandemia. Difficile che basti se a non guarire è l’intero sistema lavoro. Malato, questo, lo è da tempo.