Economia

Tendenza. Lo "smart working" non si ferma

Maurizio Carucci venerdì 6 dicembre 2024

Una lavoratrice in smart working

Lo smart working non si ferma. Almeno per ora. Il numero di lavoratori da remoto nel 2024 è sostanzialmente stabile: 3,55 milioni rispetto ai 3,58 milioni del 2023 (-0,8%). Cresce nelle grandi imprese, dove coinvolge quasi due milioni di lavoratori (1,91 milioni, +1,6% sul 2023), vicino al picco della pandemia, con il 96% delle grandi organizzazioni che oggi hanno consolidato delle iniziative. Cala invece nelle piccole e medie imprese, passando a 520mila lavoratori dai 570mila dell’anno scorso, resta sostanzialmente stabile nelle microimprese (625mila nel 2024, 620mila nel 2023) e nella pubblica amministrazione (500mila nel 2024, 515mila nel 2023). Per il 2025 si prevede una crescita del +5%, che porterebbe a toccare 3,75 milioni. A far evolvere le iniziative, in termini di persone coinvolte o di policy, saranno soprattutto le grandi imprese (35%) seguite dalle Pa (23%) e dal 9% delle pmi. Praticamente tutte le grandi imprese prevedono di mantenere lo smart working anche in futuro. Il 35% delle grandi imprese e il 43% delle Pa prevede un incremento dei lavoratori coinvolti nel prossimo anno, mentre nelle pmi la direzione è opposta, con solo l’8% che ipotizza un aumento. Sono alcuni dei risultati della ricerca dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.

Gli smart worker italiani possono lavorare da remoto in media nove giorni al mese nelle grandi imprese, sette nella Pa e 6,6 nelle pmi. Lo smart working è una pratica diffusa e apprezzata, a cui ben pochi rinuncerebbero: il 73% dei lavoratori che se ne avvalgono si opporrebbe se la propria azienda eliminasse questa forma di flessibilità. Nello specifico, il 27% penserebbe seriamente di cambiare lavoro, il 46% si impegnerebbe per far cambiare idea al datore di lavoro. Sempre secondo i lavoratori, per cercare di compensare almeno in parte la mancata possibilità di lavorare da remoto, l’azienda dovrebbe offrire una maggiore flessibilità oraria o aumentare lo stipendio di almeno il 20%. Tra chi è tornato in totale presenza dopo aver lavorato da remoto, solo il 19% lo ha fatto per scelta personale, perché non ha più la necessità di lavorare da remoto o semplicemente preferisce socializzare con i colleghi in presenza, il 23% ha una nuova mansione non svolgibile da remoto, mentre per la grande maggioranza (58%) è stata una decisione presa dall’azienda.

L’atteggiamento dei manager ha un ruolo cruciale nel determinare l’adozione delle pratiche di smart working e il loro effettivo utilizzo. Il 53% delle grandi imprese ritiene che i propri manager siano promotori di tali iniziative mettendole in pratica e stimolando anche i propri collaboratori a farlo. Nel settore pubblico e nelle pmi questo atteggiamento positivo è meno diffuso, presente solo, rispettivamente, nel 35% e nel 27% delle organizzazioni. Oltre un terzo delle pmi dichiara, invece, che i propri responsabili hanno un atteggiamento scettico rispetto allo smart working, permettendo alle persone di lavorare da remoto solo in presenza di particolari necessità o addirittura non incentivandone l’applicazione. Un approccio strategico in cui sia lavoratori che manager rivedono il proprio modo di lavorare coerentemente con la filosofia delle smart working è presente solo nel 33% delle grandi imprese, nel 20% delle Pa e nell’8% delle pmi, e porta a risultati superiori in termini sia di prestazioni organizzative che di benessere delle persone.

Cresce l’attenzione al ripensamento degli spazi di lavoro per renderli più efficaci ed attrattivi in un modello di lavoro smart. Il 78% delle grandi imprese ha, almeno in alcune sedi, spazi flessibili, riconfigurabili, differenziati e che permettono un uso efficace degli ambienti, soluzioni presenti anche nel 49% della Pa e nel 34% delle pmi. Il 56% delle grandi imprese e il 28% di pmi e Pa hanno introdotto nelle loro sedi spazi dedicati al recupero delle energie e alla socializzazione, mentre restano ancora poco diffuse le soluzioni per il benessere fisico come gli standing desk.

Meno di un'azienda su dieci ha adottato la settimana corta, ma nonostante una diffusione ancora contenuta, questa sta riscontrando interesse nelle organizzazioni. I modelli e le pratiche sono molto diversi, dalla settimana compressa ai venerdì brevi, talvolta applicati solo in determinati periodi dell'anno, o una rimodulazione dell’orario lavorativo riservate a specifici profili di lavoratori, come quelli su turni. Le motivazioni principali per cui le organizzazioni hanno implementato o stanno valutando di introdurre la settimana corta sono: migliorare il bilanciamento fra vita privata e lavorativa delle persone (per il 91% delle aziende), la volontà di aumentare la soddisfazione lavorativa e l’engagement (89%) e la capacità di risultare più attrattive sul mercato del lavoro (56%). Il miglioramento della produttività non figura tra le principali motivazioni dichiarate.

Il modello ibrido per attirare talenti

All’aumentare dei giorni di lavoro trascorsi in smart working migliora anche l’esperienza lavorativa vissuta dai collaboratori di un’organizzazione. Con una singolare eccezione, in negativo, per le realtà che adottano un modello di quasi full remote, concedendo ai dipendenti la possibilità di lavorare per quattro giorni alla settimana lontano dall’ufficio. È questo uno dei trend principali che emergono dal Report Smartworking 2024, la ricerca realizzata da Great Place to Work Italia con l’obiettivo d’indagare il rapporto tra smart working, soddisfazione lavorativa e produttività aziendale, redatta ascoltando il parere espresso da quasi 21mila collaboratori di 33 organizzazioni che hanno partecipato alla survey, attive in dieci settori merceologici. Lo smart working, in forme come telelavoro o lavoro flessibile, esisteva in Italia già prima della pandemia, ma era limitato solo a specifiche categorie. Il Covid-19 ha accelerato drasticamente l’adozione di questa modalità d’organizzazione del lavoro, spesso senza dare alle aziende il tempo di sviluppare buone pratiche. Nel 2023, i lavoratori da remoto nel Bel Paese erano pari a 3,58 milioni, in leggera crescita rispetto ai 3,57 milioni del 2022, ma ben il +541% in più rispetto al dato pre-Covid; nel 2024, invece, si stima che saranno 3,65 milioni gli smart worker attivi in Italia. Entrando nel dettaglio dell’indagine promossa dalla realtà mondiale leader per la cultura organizzativa, emerge come il 37% del campione non benefici dello smart working e il modello più diffuso tra le organizzazioni risulti essere quello ibrido che offre la possibilità di lavorare da remoto per due (20%) o tre giorni (18%) alla settimana; mentre solo in meno di un caso su 10 (7%) i collaboratori lavorano in full remote per l’intera settimana lavorativa. Mettendo a confronto gli ambienti di lavoro d’eccellenza italiani con il campione nazionale che emerge dall’indagine Europe Workforce Survey 2024 si evince come le realtà più virtuose del made in Italy sposino un modello di lavoro ibrido in più della metà dei casi (56%), con una differenza del +37% rispetto al dato della media nazionale (19%), dove a dominare è ancora il lavoro in presenza (74%). Tra le generazioni al momento attive nel mondo del lavoro la Generazione X (tra 45 e 54 anni) e i Baby Boomer (over 55) preferiscono la collaborazione in presenza, percependo isolamento e ridotta efficacia nel lavoro completamente da remoto. Al contrario, i più giovani gestiscono meglio la collaborazione a distanza ma soffrono la mancanza di socializzazione in ufficio, un aspetto importante per i programmi d’inserimento della Gen Z (under 25). La resistenza al cambiamento verso il lavoro ibrido può essere dunque maggiore tra Baby Boomer, Gen X e Millennial, rendendo fondamentale l’implementazione di una cultura aziendale solida che supporti lo smart working.

Le persone maggiormente positive rispetto al tema delle politiche organizzative atte a favorire lo smart working sono le persone che lavorano per cinque giorni a settimana da remoto. In seconda battuta, anche chi lavora in smart per tre giorni riporta percezioni molto elevate. Da notare invece come per chi lavora per quattro giorni a settimana da remoto vi sia un calo rispetto alla dimensione delle politiche organizzative, quasi a significare che nel passaggio tra lavoro ibrido e “quasi full remote” i bisogni e le percezioni delle persone rispetto al proprio lavoro cambino radicalmente. Un trend che si conferma anche rispetto al tema delle tecnologie, degli strumenti e degli spazi di lavoro messi a disposizione dalle organizzazioni per svolgere al meglio le proprie mansioni: chi lavora quattro giorni a settimana in smart working è più negativo, trovandosi in una zona grigia tra lavoro ibrido e full remote. Passando invece all’analisi dello stile adottato dai leader e dal management aziendale nei confronti dello smart working la ricerca mostra come chi lavora quattro giorni da remoto percepisca più negativamente la leadership, suggerendo che la transizione da ibrido a full remote comporti per il management sfide comunicative e di gestione. Questo “limbo” tra ibrido e full remote impatta negativamente sulla leadership, poiché i responsabili, spesso meno abituati allo smart working, faticano ad adattarsi a questa nuova modalità di lavoro tanto che, secondo una ricerca condotta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, meno di un quarto degli impiegati (22%) ritiene di avere un capo smart.

Le analisi di Great Place to Work evidenziano una quinta dimensione cruciale, quella della comunicazione e della cultura aziendale. Per lo smart working e il lavoro ibrido, infatti, è essenziale mantenere una comunicazione efficace e una cultura coesa. I dati mostrano che chi lavora quattro giorni in smart working percepisce meno la possibilità di assentarsi (85%) rispetto a chi lavora da remoto per tre o cinque giorni (90%). Anche il bilanciamento tra lavoro e vita privata è percepito meno positivamente in chi lavora per quattro giorni in smart (77%), ma le differenze nel confronto con chi è impiegato in full remote (79%) sono minori. Passando all’orgoglio, quest’ultima è l’area tematica meno influenzata dal numero di giorni medi trascorsi in smart working. L’analisi suggerisce, infatti, che il numero di giorni trascorsi in smart working non ha impatto sulla percezione dell’orgoglio verso il proprio lavoro, sui risultati ottenuti insieme o sull’intenzione di restare in azienda a lungo termine. Questo è significativo, poiché sfida l’idea che maggiore distanza dall’azienda riduca l’orgoglio lavorativo. Inoltre, non vi è alcun impatto sulla retention, suggerendo che la volontà di rimanere in azienda dipenda più da dinamiche come relazioni, fiducia e leadership, piuttosto che dal numero di giorni di lavoro in smart working.

Spostando il focus sull’innovazione, le analisi mostrano che all’aumentare dei giorni di smart working aumenta anche nei collaboratori la percezione delle possibilità d’innovazione, con una leggera flessione registrata sempre in chi trascorre quattro giorni alla settimana in smart working. Una via di mezzo, quest’ultima, considerata meno vantaggiosa e che offre dunque ai dipendenti minori possibilità d’innovare rispetto al modello ibrido (tre giorni in presenza e due in smart) e alla soluzione full remote. Infine, rispetto alla percezione di equità del salario, i dati mostrano una crescita nella percezione positiva del compenso che va di pari passi all’aumento del numero di giorni trascorsi in smart working. La flessibilità offerta dal modello di lavoro da remoto è in grado di migliorare la soddisfazione economica dei collaboratori e il senso di equità nella distribuzione della ricchezza aziendale, garantendo un migliore equilibrio vita-lavoro, la riduzione dei costi di spostamento e una maggiore autonomia. In sintesi, l’introduzione dello smart working migliora in modo lineare la percezione del salario.

La sfida delle pmi alle multinazionali

Una piccola impresa assume un giovane. Lo forma, lo inserisce all'interno del proprio organico, investe su di lui tempo e risorse per disporre di una figura capace di gestire la complessità crescente e di rendere l'azienda competitiva sul mercato. Ma all'improvviso arriva una grande multinazionale, che con un'offerta economica molto vantaggiosa per il lavoratore e impossibile da pareggiare per la pmi, riesce ad accaparrarsi le prestazioni del ragazzo e, soprattutto, le competenze acquisite nel corso della formazione all'interno dell'azienda più piccola, che si ritrova di colpo impoverita sul versante del capitale umano e in difficoltà per competere con i grandi player. Questa è una storia che si ripete tutti i giorni nelle pmi del Paese, che rappresentano la quasi totalità del tessuto produttivo italiano, ma che non hanno gli strumenti per competere con i grandi gruppi (in particolare esteri) o i fondi di investimento, dotati di grande forza economica e che cercano continuamente i profili più specializzati per continuare a crescere e dominare il mercato. E se è vero che esistono strumenti a disposizione delle pmi per cercare di fermare – o perlomeno rallentare – il travaso dalle realtà piccole a quelle più grandi, questi non bastano più. Per questo, c'è bisogno di un cambio di mentalità all'interno del management delle piccole imprese, mettendo sempre più al centro dell'attenzione non solo l'aspetto economico, ma soprattutto il coinvolgimento dei neoassunti all'interno dell'organizzazione aziendale.

«Questa dinamica - spiega Francesco La Badessa, avvocato giuslavorista dello Studio Ichino Brugnatelli - è diventata più evidente nel corso degli ultimi anni: il post Covid ha fatto emergere in modo determinante le peculiarità della generazione "You only live once", che consapevole del fatto che "si vive una volta sola" presenta una rigidità di richieste al suo ingresso nel mercato del lavoro: flessibilità, smart working e smaterializzazione dei rapporti sono alcune di queste. Dall'altro lato, però, questa generazione è la più richiesta dalle aziende, per ragioni anagrafiche, ma anche perché depositaria di conoscenze (in particolare in campo informatico e digitale) che non fanno parte del bagaglio culturale degli Over 40». E qui cominciano i problemi: «Le pmi puntano moltissimo sulle prestazioni dei ragazzi e li inseriscono nel proprio organico con contratti che prevedono anche la formazione. Ma le aziende italiane, oggi, faticano a reggere l’aggressività finanziaria degli investitori esteri pur avendo a disposizione strumenti astrattamente idonei a tutelare l'investimento fatto con la formazione dei propri dipendenti». Tra questi, si possono annoverare il patto di non concorrenza – che subentra quando un rapporto di lavoro cessa e impedisce, almeno per un periodo, che il lavoratore possa essere assunto da un'azienda che lavora nello stesso campo di quella da cui si è dimesso – ma soprattutto i «patti di retention», i quali prevedono che, a fronte dell'investimento sostenuto per la formazione dei neoassunti, questi sono obbligati a rimanere all'interno dell'azienda per un dato periodo di tempo, utile perlomeno per rientrare della cifra spesa dall'imprenditore. Tra questi, ci sono il «Patto di durata minima garantita», una clausola contrattuale con la quale viene garantita una durata minima del rapporto, durante il quale il lavoratore può dimettersi volontariamente dal rapporto di lavoro anticipatamente solo dietro il pagamento di costose penali, o il patto di prolungamento del periodo di preavviso. «Ma con attori potenti come le multinazionali o i fondi, questi strumenti non sono più così validi come un tempo: se è pur vero che questi patti prevedono penali molto alte, spesso non sostenibili da un privato, va detto che i competitor internazionali hanno capacità di spesa che permettono di superare agevolmente questo scoglio: in altre parole multinazionali o Fondi, sotto forma di welcome bonus, offrono ai lavoratori vincolati dai patti la provvista utile a superare immediatamente l’ostacolo opposto dalle penali», sottolinea La Badessa.

Come possono quindi le pmi (e non solo) difendere il capitale umano di fronte ai grandi colossi dell'economia e della finanza mondiale? La parola chiave è «coinvolgimento». «Abbiamo fatto una ricerca tra le aziende che seguiamo in studio per capire come le piccole aziende possano superare anche questa situazione di svantaggio, posto che i patti di retention sulla carta sono un ostacolo insormontabile: abbiamo realizzato che ai neoassunti deve essere garantito un coinvolgimento professionale, modificando la filosofia imprenditoriale delle Pmi italiane – precisa La Badessa -. I ragazzi hanno bisogno di sentirsi maggiormente coinvolti nelle imprese familiari, nella progettualità imprenditoriale, con percorsi di crescita programmata e predeterminata, sistemi di welfare aziendale mirati alle esigenze individuali, sistemi di retribuzione variabile che possono essere anche forme di partecipazione diretta in ambito societario e un cambiamento delle dinamiche di approccio alle fasi decisionali, non più riservate solo ai ruoli apicali ma anche alle nuove generazioni, che sono iperappetibili sul mercato. Servono confronto, inclusione e spiegazione delle scelte per il progetto di impresa». Questo cambio di filosofia deve avvenire in un periodo storico in cui molte Pmi sono alle prese con il cambio generazionale: spesso, le aziende che diventano target per le multinazionali e i fondi sono quelle guidate dalla seconda o dalla terza generazione di imprenditori che hanno perso l’ispirazione dei loro ascendenti, con la conseguenza che vengono facilmente cannibalizzati da cinesi, americani e indiani. «Questo è un processo sfidante: gli strumenti legali e contrattuali del giuslavorismo classico pur validi nella loro tenuta giuridica, non sono più sufficienti per garantire un futuro all'imprenditoria italiana – rimarca l'avvocato -. Con queste operazioni, spesso si perdono la qualità e la genialità che hanno fatto grandi le aziende italiane nel mondo. È successo anche nel campo della moda e del design: alcuni marchi italiani, acquisiti da colossi esteri, hanno visto l'estromissione delle figure creative che ricoprivano incarichi apicali, disperdendo tutto il valore generato in decenni di storia». Il cambio di rotta è necessario anche per «non disperdere giovani cervelli italiani nel mondo», ma non è così semplice: «I vertici delle aziende di oggi, anche da un punto di vista culturale, fanno molta fatica a interloquire con le generazioni più giovani – sintetizza La Badessa -. Non è un sinonimo di scarsa fiducia, ma c'è sempre il timore che l'esigenza individuale (come lo smart working, la flessibilità o il desiderio di maggiori guadagni) li porti comunque a lasciare la barca nel momento di un'offerta più allettante. Ma sono convinto che, se agli strumenti offerti dal panorama legale si iniziasse a introdurre un cambio di mentalità a livello imprenditoriale, molti giovani si sentirebbero più coinvolti dall'azienda e aderirebbero con entusiasmo a un progetto a medio-lungo termine che possa farli sentire protagonisti e non meri elementi di un ingranaggio».

Un ruolo importante può arrivare proprio dallo smart working. Anche se è regolato da diverse normative. La principale è la legge n. 81 del 2017, che ha introdotto il concetto di "lavoro agile". Durante la pandemia, il decreto Legge n. 34 del 2020 ha semplificato le procedure per l'adozione dello smart working. Da ultimo, la legge n. 61 del 2023 ha prorogato temporaneamente alcune misure emergenziali. Inoltre, molti accordi aziendali e collettivi hanno definito ulteriormente le modalità di applicazione del lavoro agile. «Lo smart working in Italia - chiarisce il giuslavorista - ha subito una notevole trasformazione, ancora in atto. Inizialmente adottato come misura emergenziale e poi diventato, nel biennio 22-23, pratica consolidata in molte aziende. Si è passati improvvisamente da una situazione in cui era limitato a poche realtà, a una sua diffusione massiccia, con molti datori di lavoro che hanno integrato modelli di lavoro ibrido, alternando giorni in ufficio e giorni di lavoro da remoto. Nel 2024, poi, qualcosa è cambiato. Le aziende richiedono più presenza fisica nel rispetto comunque di una flessibilità operativa, digitalizzazione sicura e nuovi metodi di gestione e monitoraggio delle performance. Al contempo, cercano anche di mantenere la cultura aziendale e di promuovere il coinvolgimento dei dipendenti. D'altra parte, i lavoratori chiedono flessibilità, supporto tecnologico adeguato, chiarezza nelle aspettative e un appropriato work/life balance, inclusa la salvaguardia del diritto alla disconnessione».

Insomma, le modalità di lavoro si sono evolute rapidamente e le normative devono riflettere questi cambiamenti, garantendo flessibilità e tutela dei diritti dei lavoratori. Un aggiornamento normativo è necessario per garantire ancora più spazio di manovra alle parti sociali e, soprattutto, alla contrattazione aziendale, unico strumento effettivamente in grado di recepire correttamente le esigenze di entrambi le parti contraenti di un rapporto di lavoro. «Le criticità - conclude La Badessa - derivano principalmente da una cultura del controllo e dalla difficoltà di comunicazione a distanza, che possono minare la fiducia. Tuttavia, lo smart working offre anche benefici significativi, come maggiore autonomia, flessibilità e innovazione nelle pratiche manageriali, che possono rafforzare il rapporto fiduciario. In Italia, dove le relazioni personali sono fondamentali, bilanciare queste dinamiche è cruciale. In Europa, l'adozione dello smart working varia da Paese a Paese. Per esempio la Germania e i Paesi Bassi hanno normative più consolidate e flessibili, mentre altri hanno introdotto regolamentazioni più recentemente. Le criticità e i benefici sono simili a quelli italiani, ma le diverse culture lavorative influenzano il modo in cui lo smart working viene percepito e applicato».