Lavoro. Longoni: «Liberiamo le forze di questa generazione»
La sfida di generare un mondo del lavoro inclusivo nel quale i giovani non rimangano indietro è grande ma si può vincere «se la società saprà tornare a quella visione comunitaria che ha sempre sostenuto la nostra nazione e l’Europa stessa». Per don Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro, è questa la chiave fondamentale che aiuta a capire la portata delle parole pronunciate nell’ultimo giorno dell’anno sia da papa Francesco che dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Ma perché questi due appelli oggi suonano così in controtendenza?
Il problema è che nel nostro Paese non si parla più di alleanza genera- zionale a livello istituzionale e politico perché probabilmente le giovani generazioni non hanno la 'quota elettorale' che hanno le altre. È urgente quindi passare da una visione puramente idealistica a un piano pratico, evitando però certe forme di intervento episodico. L’obiettivo dovrebbe essere quello di liberare i nostri giovani, che anche se forti e intelligenti non hanno una struttura attorno a loro in grado di farli crescere.
Cosa significa 'liberarli'?
Significa sollevarli da tutti i gioghi che imponiamo loro: una burocrazia senza limiti, una indecisione politica tragica in tanti campi, una incapacità di dare credito alle loro speranze. Pensiamo ad esempio alla scelta di molti istituti di credito che non favoriscono il loro impegno a gettarsi nell’impresa e magari preferiscono finanziare altre realtà più solide, che però si rivelano alla lunga puramente speculative. Si tratta quindi, in realtà, di ripensare l’intera politica economica, di ripensare «il lavoro che vogliamo», tema che sarà proprio al centro della prossima Settimana sociale dei cattolici in programma a Cagliari a fine ottobre. Seguendo il modello indicato da papa Francesco nella Evangelii gaudium e in molti altri suoi interventi, faremo delle proposte a partire da esperienze concrete (proposte da portare anche in ambito legislativo) per rendere il lavoro sempre più «libero, creativo, partecipativo e solidale».
Si tratta di una prospettiva davvero possibile?
Possibile e doverosa. Troppo spesso dimentichiamo l’articolo 4 della nostra Costituzione che parla del dovere dello Stato di garantire il diritto al lavoro e di promuovere le condizioni che lo rendano effettivo, ma anche del dovere di ogni cittadino di svolgere «una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». E qui ovviamente non si parla di una spiritualità di tipo confessionale ma legata ai valori, all’etica.
Ma l’inclusione passa da uno Stato che si faccia carico di dare lavoro ai giovani?
No, non penso che lo Stato debba dispensare posti di lavoro; su questo ci sono stati già troppi errori in passato. Di certo sono necessarie politiche attive che mettano al centro la responsabilità. Ad esempio il reddito d’inclusione sociale di cui si parla oggi imboccherà una direzione positiva solo se non diventerà un dare senza chiedere responsabilità e corresponsabilità. Quindi direi no a pietismi o forme puramente assistenziali. Questa via va percorsa non perché ce lo chiede il mercato bensì proprio perché crediamo che il lavoro dovrà essere sempre più libero, partecipativo, solidale e creativo. Quindi sentiamo il bisogno di politiche che sappiano creare il vero sviluppo, di proposte forti nate dalla collaborazione di tutte le parti politiche. Ciò significa non dimenticarsi sia delle nuove generazioni che di coloro che hanno perso il lavoro.
Qualche segnale di speranza c’è?
Sì, qualcosa si sta muovendo: penso all’alternanza scuola-lavoro e all’importante visione a essa sottesa; penso al coraggio di molti giovani che trovano le energie per associarsi offrendo nuove opportunità sia ai loro coetanei che a coloro che si trovano in difficoltà. Realtà che nascono proprio da quella visione comunitaria auspicata da papa Francesco e da Mattarella.