Banche. La riforma delle popolari è sempre più in bilico
La sede della Corte Costituzionale, a Roma (WikiCommons)
Non c’è soltanto la questione dei limiti al diritto di recesso tra i motivi per cui il Consiglio di Stato il primo dicembre ha rinviato alla Corte Costituzionale il decreto legge della contestata riforma delle banche popolari, approvato dal governo Renzi nel gennaio del 2015. I giudici del secondo grado della giustizia amministrativa nelle motivazioni dell’ordinanza rese note il 15 dicembre hanno anche dichiarato «rilevante e non manifestamente infondata» la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 di quel decreto legge, quello dove si obbligano le banche popolari con oltre 8 miliardi di attivi a trasformarsi in società per azioni. A non essere infondata, più precisamente, è la «carenza dei presupposti di necessità e di urgenza» che giustificano il ricorso a uno strumento legislativo rapido come un decreto legge.
Secondo gli avvocati che hanno curato il ricorso di diversi soci e associazioni di consumatori, sulla base di questa argomentazione può essere messo in discussione l’intero impianto della riforma caldeggiata anche dalla Banca d’Italia e dalla Banca centrale europea. Sarà la Corte costituzionale, terzo e definitivo organo giuridico chiamato a esprimersi sulla questione, a decidere. L’esito non è affatto scontato, anche perché i giudici costituzionali potrebbero confermare i dubbi del Consiglio di Stato sulla modalità del decreto legge, ma potrebbero considerare la questione “sanata” dal fatto che il Parlamento successivamente ha convertito quel decreto in legge. Se la Consulta dovesse considerare incompatibile con la Costituzione l’intero articolo «gli effetti sarebbero dirompenti — spiega uno dei legali, Luis Corea — non solo perché si innescherebbero inevitabili istanze risarcitorie, ma anche perché una decisione di questo tipo certificherebbe che sulla trasformazione in Spa, che di per sé non è un atto illegittimo, ha pesato un obbligo e la volontà dell’assemblea è stata in parte coartata. E questo potrebbe avere effetti più ampi». È improbabile che si arrivi al “ritorno” allo status di popolari delle banche che si sono già trasformate in Spa, anche perché in molti casi sono scaduti i termini per impugnare le delibere delle assemblee. «Ma fra i rimedi possibili a disposizione dei soci di ciascuna ex popolare si potrebbe immaginare un’azione di arricchimento senza causa, da esperire, a cura di coloro che recedono, nei confronti dei titolari delle quote trasformate in azioni secondo il regime introdotto dal decreto legge rimesso al vaglio della Corte» spiega un altro dei legali, Federico Tedeschini.
Altre possibili richieste di rimborso si vanno così ad aggiungere a quelle che potrebbero arrivare dall’altra questione sollevata dai soci contro la riforma, quella dei limiti ai diritti di recesso secondo le direttive della Banca d’Italia per chi fosse stato contrario al passaggio in Spa. Il conto finale degli errori di metodo nella riforma può così arrivare a svariate centinaia di milioni. «Ora, l’attuale governo sa cosa dovrebbe fare per evitare che l’attacco alle Popolari produca altri danni, e a sostegno di quelle banche di territorio che sono davvero, e tradizionalmente, di aiuto alle piccole e medie aziende, di qualunque settore» avverte Corrado Sforza Fogliani, presidente di Assopopolari.
L’incertezza sulle sorti della riforma sta generando una situazione caotica. La Banca Popolare di Sondrio, una delle poche che ancora non si sono trasformate, ha chiesto ai giudici del Consiglio di Stato di emettere un decreto monocratico cautelare che sospenda il termine del 31 dicembre 2016 per diventare una Spa. Insomma: ha chiesto la possibilità di avere più tempo per capire se davvero la riforma li obbligherà alla conversione. Il tutto alla vigilia dell’assemblea, al momento confermata per sabato 17 dicembre.