Economia

Il caso. La legge per proteggere i campi bio rischia di mandare in tilt il settore

Silvia Perdichizzi giovedì 21 novembre 2024

Lo hanno ribattezzato il decreto “Ammazza bio”. Nelle definizioni antipatizzanti ci può essere sempre un eccesso, ma per il momento questo è il destino che ha toccato le norme volute dal ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, per regolamentare la presenza di tracce di pesticidi nei prodotti biologici. Un decreto che ha fatto discutere e che – introducendo il principio della “tolleranza zero” per tutelare il settore – cade nel paradosso di colpire proprio i piccoli produttori bio. Tanto che, secondo indiscrezioni giunte mentre scriviamo, il ministro sembra propenso ad accogliere alcune delle proposte arrivate dalle associazioni di riferimento e modificare il testo inizialmente condiviso. Un passo importante in un momento in cui il biologico nel nostro Paese segna importanti traguardi rispetto al resto d’Europa.

Tutto ruota attorno al concetto di “contaminazione accidentale”, ovvero quel “contagio” che avviene “incidentalmente” – tramite il vento, l’acqua e svariati fattori ambientali non controllabili – quando un campo biologico è vicino a uno di tipo convenzionale trattato con pesticidi. Oggi in Italia esistono regole molto rigide in proposito e la presenza di sostanze chimiche è tollerata nei prodotti bio solo fino al cosiddetto “zero tecnico” (0,01 parti per milione): il limite che gli strumenti di analisi riescono a quantificare. Il decreto interviene su questa soglia «usando però due pesi e due misure», dice Franco Ferroni, responsabile Agricoltura del Wwf. Che spiega come la bozza di Lollobrigida da un lato «ricorra al bastone con il biologico, imponendo limiti di contaminazione impossibili da rispettare», mentre dall’altro «allarghi le maglie alla presenza di pesticidi molto più pericolosi». Oltretutto l’onere della prova che dimostri come la contaminazione sia «accidentale» ricade su chi la subisce, cioè l’agricoltore bio. Con costi annessi e un ginepraio di pratiche, un sovraccarico che renderebbe l’Italia un caso sostanzialmente unico in tutta l’Unione europea. La paura di tanti è che molti coltivatori abbandonino i campi o si convertano al convenzionale. Un rischio che, come Paese, non ci possiamo permettere.

L’Europa, infatti, chiede a tutti gli Stati membri di arrivare al 25% di superficie coltivata a biologico entro il 2030. Un obiettivo indispensabile per difendere la biodiversità, frenare la crisi climatica e l’erosione dei terreni, migliorare l’offerta alimentare. L’Italia ha raggiunto già quasi il 20% e prevede di arrivare a mèta addirittura con tre anni di anticipo. «A meno che non intervenga il decreto “Ammazza bio”», dicono allarmati dall’associazione del Wwf. In che modo? Oggi i pesticidi in commercio possono contenere più di una sostanza chimica: non è detto, cioè, che il principio attivo al loro interno sia uno solo. La norma ministeriale stabilisce che – a differenza di quanto già accade – un prodotto bio in cui si riscontrano tracce di pesticidi al di sotto dello zero tecnico, venga messo in quarantena per avviare i controlli che ne accertino l’accidentalità, se si è in presenza di una sola molecola. Sia declassato a prodotto convenzionale, se ce n’è più di una.

Comunque «in entrambi i casi a rimetterci è sempre il biologico», spiega Roberto Pinton, esperto di diritto alimentare e di agricoltura bio. Che fa un esempio significativo: «Il mio vicino ha un vigneto trattato con pesticidi di sintesi. Tracce di questi arrivano nel mio campo, fanno i controlli, trovano più di una molecola: il mio prodotto è declassato. Ne trovano una, lo bloccano per quaranta giorni. Poco male se si tratta di grano o ceci, un disastro se sono insalata e fragole». Al danno poi si unisce la beffa. Se dall’indagine tutto risulta regolare, chi indennizza il coltivatore che si trova distrutti quintali di cibo a norma? Non solo, è sempre l’agricoltore bio a dover dimostrare che il contagio sia stato accidentale, a dover garantire che non si ripeta e a pagare multe salatissime nel caso in cui non riesca a risalire alla causa che, essendo “accidentale”, come appunto il vento, non è verificabile. Colpevole fino a prova contraria, quindi, in un sistema in cui biologico e costretto a co-abitare con il convenzionale e a subirne le “tracce”, a meno che non si cambi modello di produzione tout court. «Nessuno dei 27 Stati dell’Unione ha infatti una norma come questa», conclude Ferroni del Wwf che fa notare la contraddizione di un «ministero che usa invece il guanto di velluto di fronte alla presenza superiore allo zero tecnico di pesticidi molto diffusi come il glifosato», potenzialmente cancerogeni per l’Oms. Sollevando il sospetto che dietro «il tentativo di marginalizzazione del bio» ci sia la mano delle lobby dell’agroalimentare. Ecco perché tutte le associazioni – eccezione fatta per FederBio, meno critica verso il decreto – vogliono il mantenimento dell’attuale normativa. E chiedono, compatte, al governo di intervenire seriamente alla base del problema.

Come? Sbloccando il Piano d’Azione Nazionale sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, fermo da cinque anni: che ribalta l’onere della prova a carico di chi usa pesticidi e diserbanti, costringendo il convenzionale a prendere tutte le misure necessarie per evitare la contaminazione accidentale. Oltre una spinta nell’attuazione della Strategia europea Farm to Fork per il dimezzamento dei pesticidi al 2030. Nel frattempo, non resta che aspettare il testo definitivo del decreto Lollobrigida il cui contenuto dovrebbe essere reso noto a giorni.

© riproduzione riservata