Demografia. Più le case costano meno figli nascono. Cosa possono fare i governi
Negli anni Sessanta del secolo scorso il numero medio di figli per donna nei Paesi avanzati era di 3,3. Nel 2022, a distanza di oltre mezzo secolo, il tasso di fecondità si è più che dimezzato, scendendo a 1,5, cioè molto sotto i 2,1 figli, la cifra che garantisce la stabilità della popolazione.
Il declino della natalità ha avuto esiti diversi a seconda dei Paesi, in Italia e Spagna, ad esempio, si è scesi a 1,2, in Corea del Sud a 0,7. Questa trasformazione, che ha il suo fondamento principale nel cambio degli stili di vita nelle società caratterizzate da un certo livello di benessere, ha visto anche alzarsi notevolmente l’età media in cui le donne hanno il primo figlio, salita oggi a quasi 31 anni, rispetto ai 28,6 del 2000, e crescere la quota di chi resta senza prole: circa una donna su quattro delle nate nella coorte del 1975 in Italia e Spagna, il 28% in Giappone.
Nel riassumere questi dati all’interno del rapporto “Society at a glance 2024”, l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha fotografato lo stato dell’arte della ricerca scientifica sulla fecondità per provare a suggerire ai governi misure di intervento, nella consapevolezza che la crisi demografica avrà un impatto molto forte sulla crescita economica e la sostenibilità dei sistemi previdenziali e sanitari.
Le ragioni della denatalità sono molte e complesse e variano anche tanto a seconda dei contesti, ma nei tratti comuni alle nazioni più ricche si possono individuare fattori come la sicurezza economica e finanziaria, i costi per crescere i figli, le norme sociali, il mercato del lavoro e la politica familiare dei governi, ma anche un approccio diverso dei giovani nello sguardo verso la genitorialità in rapporto ai nuovi desideri di autorealizzazione. Questioni materiali e culturali, insomma.
A fronte di tutto questo l’Ocse invita a prendere atto che il mondo deve prepararsi a un futuro caratterizzato da bassi tassi di fecondità, e dunque diventa necessario considerare il contributo delle migrazioni; allo stesso tempo, per sostenere la fecondità il rapporto sottolinea l’importanza di politiche che favoriscano la conciliazione del lavoro con gli impegni della famiglia, per la cura e l’educazione dei figli, e ricorda come i trasferimenti economici possono funzionare se sono stabili e strutturali, anche se possono avere effetti temporanei, mentre si dimostrano utili le misure che abbattono i costi delle case per i giovani.
La questione delle abitazioni come tema legato alla natalità è una delle strade di cui forse non si parla abbastanza e merita un approfondimento. In particolare in un Paese come l’Italia.
Nel bilancio familiare le spese per l’assistenza all’infanzia, l’istruzione, il cibo e l’alloggio sono infatti le voci che hanno maggiore impatto sul costo dei figli e che possono incidere sulle scelte familiari. Nei Paesi Ocse le spese per la casa dal 2008 hanno registrato l’aumento maggiore come quota del bilancio familiare, più delle comunicazioni, che sono al secondo posto, e dell’educazione, mentre è diminuito l’impatto delle uscite per gli alimenti, l’abbigliamento, i trasporti, la salute, la ricreazione e la cultura.
L’incremento del peso della casa nei bilanci familiari riflette i forti aumenti dei prezzi reali delle abitazioni nell’ultimo decennio, specialmente nelle aree metropolitane. In Italia dal 2008 la spesa per l’abitazione, che contempla anche le bollette per le forniture di luce, gas e combustibili per il riscaldamento, è salita del 40%.
Il fattore-casa è sempre più decisivo: molte ricerche hanno dimostrato l’impatto sui tassi di fecondità che può avere, in negativo, la spesa l’abitazione, anche nel momento in cui si deve fare spazio ad altri figli e, in positivo, la sicurezza di un tetto di proprietà.
Il rincaro dei costi per le case impatta chiaramente anche sulla decisione di lasciare la famiglia d’origine, spingendo i giovani ad attendere di avere i soldi necessari per andare a vivere da soli e costituire una famiglia propria. In una realtà in cui comprare o affittare un’abitazione è una spesa eccessiva, e i lavori sono spesso precari o poco pagati, per i giovani restare in casa con i genitori diventa quasi una scelta obbligata: negli ultimi anni nei paesi Ocse la percentuale di giovani dai 20 ai 30 anni che è rimasta con mamma e papà è aumentata considerevolmente, pur se con differenze notevoli a seconda del contesto.
Grecia, Italia, Portogallo e Spagna hanno quote elevate e crescenti di giovani adulti che vivono con i genitori, e non a caso sono anche i Paesi con i tassi di fecondità più bassi. In questa particolare classifica l’Italia è la seconda peggiore nazione: dal 2006 al 2022 la quota di under-30 che non lasciano la famiglia è passata dal 67% a quasi l’80%, contro una media Ocse del 50%.
Cosa possono fare i governi? Le ricette dell’Ocse, che cita il caso dell’Ungheria, sono chiare: aumentare l’offerta di alloggi incidendo sui permessi di costruzione (ad esempio con una revisione dei confini sullo sviluppo urbano o un allentamento delle normative sull’altezza degli edifici), sostenere le politiche di edilizia sociale riservando più indennità per l’alloggio alle famiglie a basso reddito e a quelle vulnerabili, rendere più facile ai giovani l’accesso ai mutui e alla proprietà della casa fornendo sussidi e garanzie pubbliche.
Se per comprare una casa non basta una vita, o per affittarla non basta uno stipendio, come possono pensare i giovani di costituire una famiglia?