Sostengono gli ultimi dati dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano che da qui a dieci anni le macchine potrebbero svolgere il lavoro di 3,8 milioni di persone solo in Italia. Sei grandi imprese italiane su dieci hanno già avviato qualche progetto legato all’intelligenza artificiale e lo stesso mercato dell’Ia cresce in maniera impetuosa: +52% nel 2023, per un valore di 760 milioni di euro. Molto indietro restano, per ora, le piccole e medie imprese: solo il 7% sta riflettendo su potenziali applicazioni e solo il 2% ha attivato almeno una sperimentazione. Dal punto di vista dei lavoratori, poi, ben il 77% degli italiani guarda con timore all’Ia, soprattutto in relazione ai possibili impatti sull’occupazione. In attesa che entro marzo-aprile il Parlamento Europeo si ritrovi per approvare l’AI act – la prima legge al mondo ad affrontare di questa tecnologia e che è impostata su un’architettura di rischi che introduce tra l’altro divieti specifici per i sistemi che minano salute, sicurezza e diritti fondamentali dei cittadini –, è interessante capire quale incidenza sta già avendo l’Ia nel mondo del lavoro. Posto che, come già accaduto con l’industrializzazione prima e l’avvento del terziario poi, nuove mansioni, che ora nemmeno immaginiamo, verranno comunque a crearsi.
Molti analisti sono convinti di una cosa: se ben governata, l’Ia può essere più un’opportunità che un rischio e un’occasione per gli stessi lavoratori di sottrarsi a “compiti di routine”, da lasciare alle macchine, per sprigionare creatività e capacità in altri ambiti, grazie a una formazione specifica. «Il caso del settore della cybersecurity è paradigmatico», spiega Marco Ferrando, data science della Business Unit di Var Group, tra i leader di questo settore con la società Yarix, che si è appena dotata di una piattaforma, Egyda, che grazie all’Ia permette di contrastare gli attacchi informatici abbattendo i tempi di risposta del 40%. «L’Ia aiuta nel processo analitico – aggiunge Ferrando – confrontando un’enorme quantità di dati anticipatori di una minaccia potenziale, lavoro che prima facevano gli analisti, che ora possono invece concentrarsi nella fase di maggior valore, quella qualitativa di contrasto al cybercrime».
Per Ferrando, «è molto enfatizzato il rischio della riduzione di posti di lavoro legato all’Ia. Il lavoro è costituito da un insieme di attività di tipo diverso: l’automazione impatterà sulle attività più routinarie, ripetitive e semplici. Nel servizio clienti l’automazione viene già impiegata per capire la richiesta dell’interlocutore. Questo consente poi al lavoratore di concentrarsi sulla successiva presa in carico della richiesta, quindi con una classificazione più veloce. L’impatto dell’Ia impone dunque più l’esigenza di una trasformazione del modo di pensare al lavoro: serve un modello che ci consenta di formarci. Si parla di reskilling, di trasformare le competenze delle persone. In futuro sarà la capacità cross-funzionale a distinguere l’uomo dalla macchina, la sua capacità di “unire i puntini”, ed è su questo fattore differenziante che le aziende investiranno». Nel settore manifatturiero, aggiunge ancora Ferrando, le imprese hanno già cominciato a sfruttare l’Ia «per riuscire a prevedere meglio la domanda e quindi a gestire la catena di fornitura, i tempi di resa, le dinamiche di prezzo, l’ottimizzazione della produzione, l’impatto della difettosità. Altri settori sono ancora più maturi, come i servizi bancari, assicurativi o la grande distribuzione, che già da tempo hanno la possibilità di lavorare sul dato, basti pensare a quanto viene registrato grazie alle fidelity card».
Stefano Soliano, general manager di ComoNExT e vicepresidente di InnovUp, l'associazione che rappresenta l'ecosistema italiano dell'innovazione, concorda sull’opportunità offerta dall’Ia di «sostituire l’attività ripetitiva umana con la tecnologia», ma sottolinea al contempo come non si possa parlare di sviluppo dell’Ia «solo come un fenomeno tecnologico, ma anche come un fenomeno sociale». «Le regole attuali del contratto sociale dell’Occidente diventano inadeguate rispetto allo sviluppo dell’Ia, non foss’altro per la distribuzione della ricchezza – osserva Soliano – . Il rischio enorme è che l’avvento dell’Ia porti a un’apertura molto maggiore della forbice delle diseguaglianze, bisogna quindi ripensare le regole del vivere comune. Occorre capire chi si accaparrerà i ricavi in arrivo dall’uso dell’Ia nell’ambito del marketing e della produzione, senza lasciare che tutto sia appannaggio di poche aziende, cercando anzi un meccanismo di ridistribuzione alla comunità».
Secondo Soliano, l’Ia act che il Parlamento Ue sarà chiamato a breve ad approvare va «nella direzione giusta, perché è necessario darsi delle regole, riflettere e mostrare ai cittadini la consapevolezza di rischi e potenzialità dell’Ia e lo sviluppo di una capacità critica su queste tecnologie». Il problema, aggiunge Soliano, è che in Europa «siamo bravissimi» a scrivere le regole, «ma non siamo quelli che costruiscono gli strumenti» così come spesso «imponiamo limiti alle nostre produzioni, importando però poi prodotti da Paesi che quelle regole non le rispettano». «Il dubbio – conclude Soliano – è su quanta credibilità a livello internazionale abbiamo come Europa su questi temi, emanando regole su tecnologia che viene poi realizzata in Cina o negli Usa, mentre mi sarebbe piaciuto vedere un Ia act sviluppato insieme a chi detiene le tecnologie di base». Certo è che l’Ia ha «delle potenzialità enormemente positive per certi versi, ma come tutti gli strumenti bisogna fare attenzione, perché può diventare un’arma a doppio taglio».