L'allarme. Digitale, precarietà ed "economia dei lavoretti"
La gig economy dilaga e mentre il dibattito politico è impegnato sui voucher, “l’economia dei lavoretti” legata al mondo digitale diventa la nuova frontiera della precarietà, nella generale ignoranza del fenomeno. A lanciare l’allarme sono i sindacati, ma anche gli studiosi e i politici, consapevoli che i giovani pagheranno caro questo periodo di assenza di regole. Nell’Unione europea il problema è già stato dibattuto e sarà tra i temi del ‘Pilastro europeo dei diritti socialì voluto dal presidente Juncker, che dovrebbe vedere la luce nel corso dell’anno: il sindacato europeo sta negoziando con la Commissione.
«Per prima cosa bisogna distinguere tra fenomeni fittizi e quelli reali – spiega Luca Visentini, segretario generale della Confederazione europea dei sindacati –. Per la finta sharing economy e per le finte piattaforme digitali, dove si fa passare per autonomo il lavoro dipendente, con conseguente evasione contributiva e con forme di sfruttamento del lavoro, occorre aumentare controlli, verifiche, sanzioni. Per esempio, Uber in alcuni Paesi è stato vietato, ha cominciato a pagare il dovuto ed è stato riammesso. Ma a volte il datore di lavoro non si sa chi e dove sia. Per questo chiediamo un coordinamento degli ispettorati del lavoro e degli enti assistenziali e previdenziali tra i vari Paesi europei. Servirebbe una raccomandazione da Bruxelles per un controllo e un coordinamento transnazionale». L’altro aspetto è la vera sharing economy e le reali piattaforme digitali, condivise tra utenti: «Qui – sostiene Visentini – è necessaria una nuova normativa. Protagonisti dell’economia digitale sono lavoratori autonomi, privi di potere negoziale e di tutele. Nessun Paese è riuscito a disciplinare questo mondo e a garantire diritti: occorre una direttiva europea».
Il 2017 dovrebbe quindi essere l’anno in cui Bruxelles affronterà la questione: «Contiamo di avere delle proposte prima dell’estate». Intanto però la situazione di questi lavoratori provoca “allarme sociale”: «Spesso sono sottopagati o perfino non pagati, lavorano isolati e hanno un problema di rappresentanza. Solo nel Nord Europa sono riusciti a creare delle associazioni. Ma a livello generale il quadro è poco chiaro e non esiste alcun censimento».
«Nel dibattito pubblico c’è molta confusione tra l’economia delle microprestazioni generate dalle attività digitali e la sharing economy – conferma Davide Arcidiacono, docente di Sociologia all’Università Cattolica di Milano –. Ci troviamo di fronte a una riduzione dei meccanismi di intermediazione tra domanda e offerta, in un contesto più fluido e frammentato. Una frantumazione a cui il sindacato non ha saputo dare risposte». Al centro della sharing economy – sottolinea l’esperto – c’è il ‘prosumer’, la figura che riunisce in sé il producer (produttore) e il consumer (consumatore): non è propriamente lavoro e non è propriamente consumo. Ma molte situazioni stanno “sfuggendo di mano”: chi utilizza Airbnb nella maggior parte dei casi non mette a disposizione una stanza della propria abitazione ma l’intero appartamento e risulta proprietario di più immobili. Tra chi opera con Blablacar sta diventando sempre più difficile distinguere guidatori “amateur” da “professional”. Chi lavora con Uber, si ritrova selezionato e gestito dalla società come un autista dipendente. Poi ci sono tutti i servizi forniti dalle app, dal cuoco all’idraulico al consulente, un universo che sta esplodendo. «Non si può lasciare tutto questo allo spontaneismo – sostiene Arcidiacono – è essenziale la funzione del regolatore pubblico. Occorre per prima cosa una ricerca approfondita, poi tavoli di lavoro per promuovere forme di regolazione sperimentali dal basso. Quindi una regia forte del pubblico per far sì che l’economia della condivisione e quella delle piattaforme digitali abbiano effetti positivi».
La Cgil sta cercando di fare chiarezza di questo mondo poco conosciuto: «Stiamo conducendo un censimento delle piattaforme che svolgono le attività attraverso il web – riferisce il segretario generale di Nidil, Claudio Treves –. Abbiamo segnalato al ministero del Lavoro due piattaforme che a nostro giudizio ledevano le regole del lavoro: niente limiti di orario, nessun minimo salariale, nessuna garanzia di sicurezza. Il 2017 deve essere l’anno della verità». Il sindacato chiede una regolamentazione, in modo che «chi venga attivato da una piattaforma si veda riconosciuto lo status di lavoratore, per quanto riguarda compenso, orario, diritti». Secondo il sindacalista, il disegno di legge sull’economia della condivisione di iniziativa parlamentare «si concentra essenzialmente sulla dimensione fiscale», mentre il «disegno di legge sullo smart working è evanescente dal punto di vista dei vincoli». È quindi «urgente che il legislatore, comunitario e nazionale, metta mano a questa materia».
Favorevole a un impegno del governo la viceministro allo Sviluppo economico, Teresa Bellanova: «Il lavoro nero è una piaga da combattere e questi nuovi lavori spesso lo nascondano. Bisogna evitarlo. Occorre fare una valutazione sui possibili strumenti da mettere in campo. Credo che il governo se ne debba occupare e c’è un confronto aperto in Parlamento».
Pronto a intervenire il presidente della Commissione Lavoro, Cesare Damiano: «Sarebbe drammatico se l’Italia da Repubblica fondata sul lavoro diventasse una Repubblica fondata sui lavoretti. Foodora è solo la punta dell’iceberg: ha avuto risonanza mediatica dopo lo sciopero dei rider, ma esistono centinaia di Foodora a noi ancora sconosciute. Il rischio che le piattaforme digitali sostituiscano la vecchia piaga del caporalato è dietro l’angolo». L’impegno dell’ex ministro del Lavoro è di «affrontare quest’anno il problema e regolamentarlo meglio». L’occasione può essere rappresentata dallo Statuto dei lavori autonomi che la Commissione Lavoro ha iniziato a discutere oggi, insieme alla questione voucher (in agenda domani): «L’obiettivo è regolamentare l’attività e dare tutela sociale. Si stanno affacciando molte situazioni sconosciute – insiste Damiano – per le quali vanno immaginate specifiche tutele. Un tema che andrebbe affrontato è quello dell’equo compenso, fissando una soglia minima sotto cui non si può andare».
Diversa la posizione di Maurizio Sacconi, presidente della Commissione Lavoro del Senato: «Non serve nuova regolazione. Per prima cosa bisogna distinguere se i lavoratori sono dipendenti o indipendenti. Nel primo caso hanno le tutele previste e a garantirle ci sono le attività ispettive preposte. Se sono lavoratori indipendenti, deve intervenire la contrattazione collettiva». Quindi i nuovi lavoratori dell’economia digitale devono «mettersi assieme e farsi rappresentare, da associazioni o sindacati, in modo da contrattare il valore della prestazione». Per Sacconi non c’è quindi una situazione allarmante nel settore: «Piuttosto – fa notare – bisognerebbe occuparsi dei tirocini extracurriculari: sono una forma discutibile di lavoro gratuito, con solo la copertura Inail». La Commissione sta indagando da tempo su questo tema e intende procedere nelle prossime settimane a una risoluzione.
A invocare una regolazione e un’azione delle organizzazioni sindacali sono stati anche organismi quali Fmi e Ocse: in una conferenza tenuta a Bruxelles a giugno scorso, tanto Jeffrey Franks, direttore dell’ufficio europeo del Fmi, quanto Mark Keese, capo della divisione Employement, analysis and policy dell’Ocse hanno sottolineato i rischi di una crescente precarietà, indicando la necessità di una risposta coordinata. Secondo Franks, che ha citato dati della Commissione europea, la sharing economy cresce del 25% l’anno ed oltre il 5% della popolazione europea ha già usufruito di beni e servizi sulle piattaforme digitali. Ma al di là del problema tutele e welfare, la questione è anche se la digital e la sharing economy possono offrire nuove opportunità all’occupazione italiana, sostituendo professioni che vanno scomparendo: «Molti lavori tradizionali sono entrati in crisi con la digitalizzazione – fa notare Arcidiacono – Sono in via di estinzione lo sportellista di banca, l’addetto alle vendite, gli operatori di call center, tutti sostituiti da assistenti virtuali. E lo saranno gli autisti, visto che si va verso vetture automatizzate, e chi fa consegne a domicilio, sostituiti dai droni. Ma ci sarà bisogno di nuove figure, come ad esempio il manager della community e attori delle piattaforme aziendali. All’estero guardano alle nostre esperienze nella cooperazione, per creare cooperative di piattaforma, proprietà di tutti gli utenti».
Più pessimista Treves: «Non vedo traccia di nuovi lavori. La consegna a domicilio o la riparazione di elettrodomestici ci sono sempre state. Vedo solo più precarietà». Preoccupante anche il quadro tracciato da Andrea Ciarini, sociologo che insegna Sistemi di welfare in Europa, presso il dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Università La Sapienza di Roma: «Siamo difronte a un dualismo delle professioni: high skill e low skill. L’occupazione crescerà dove vi è un alto contenuto di conoscenza. Per la prima volta i lavori che nasceranno per le nuove tecnologie saranno meno di quelli che vengono sostituiti. L’Italia in particolare ne risentirà perché ha meno lavoratori qualificati, con una produzione troppo schiacciata su piccole imprese che non investono in ricerca e su produzioni a basso valore aggiunto. Non è il Jobs act che inciderà sull’andamento dell’occupazione. Lo sventagliamento dei voucher, non limitati a pochi settori, ha creato una situazione problematica, perché a differenza di quanto accaduto in Germania, i voucher non sono stati affiancati dal reddito minimo garantito. Così ora abbiamo lavoratori poveri e senza tutele sociali. Il piano Industria 4.0 può essere positivo e condivisibile negli obiettivi ma siamo in forte ritardo. Penso che il 2017 – conclude – sarà un anno di incertezza. L’austerità non ha funzionato e l’Europa deve scegliere un nuovo modello economico e sociale».