Economia

L'intervista. «Caporalato, piaga per imprese e braccianti»

Luca Liverani mercoledì 14 settembre 2016
«La corsa al ribasso dei diritti, quando inizia, non si ferma più. E colpisce tutti: italiani e stranieri. Non è concepibile chiudere un occhio perché, come dice qualcuno, "tanto a rimetterci sono i migranti". Per lavorare, anche l’italiano deve subire questi ricatti». Nel salottino accanto al suo studio, al primo piano di Palazzo Montecitorio, la presidente della Camera Laura Boldrini ha appena congedato i rappresentanti di Cgil Cisl e Uil venuti a sollecitare l’iter della proposta di legge contro il caporalato, licenziata al Senato il 1° agosto. Qui Laura Boldrini aveva anche ricevuto le braccianti sfruttate e il marito di Paola Clemente, 49 anni e tre figli, morta di fatica nei campi ad Andria raccogliendo l’uva. Perché la lotta al caporalato e allo sfruttamento brutale dei braccianti è un impegno che la presidente Boldrini ha a cuore da tempo.La collaborazione dei sindacati con i legislatori ha portato a un progetto di legge che potrà imprimere un’accelerazione alla lotta allo sfruttamento nei campi. La repressione sarà sufficiente?I sindacati sono riusciti a fare entrare le istanze dei lavoratori e delle lavoratrici nelle aule delle commissioni parlamentari. È stato un ottimo esempio di collaborazione con le istituzioni. Il prossimo passo è il coinvolgimento delle associazioni degli imprenditori agricoli, per creare un’alleanza che metta all’angolo chi - sottopagando i lavoratori - fa anche concorrenza sleale. Dobbiamo mettere fine a questi campi della vergogna. Questo sono per il nostro Paese: lì le persone sono trattate come bestie da soma, si spaccano la schiena, non hanno il tempo nemmeno per le necessità essenziali. Storie di sfruttamento che ho potuto ascoltare direttamente da loro.Quando? Cosa le hanno raccontato?Il 1° maggio scorso con la Flai-Cgil sono stata nelle campagne pugliesi, a Mesagne, dove ho incontrato centinaia di lavoratrici. La giornata di queste donne comincia spesso alle 2 di notte, poi il viaggio di un’ora e mezzo e più su pulmini in condizioni di scarsa sicurezza, il lavoro nei campi senza fermarsi se non per pochi minuti per un panino, senza servizi igienici e per nemmeno 30 euro al giorno, infine il ritorno a casa dove devono provvedere alla cena della famiglia, ai panni, alle faccende. Una vita agghiacciante, di fatto una riduzione in schiavitù.Si dice caporalato e si pensa a Rosarno e ai migranti. Ma il problema non è solo al Sud e non riguarda solo gli stranieri.Sono storie che riguardano tanti cittadine e cittadini italiani. Se anni fa queste condizioni colpivano principalmente i migranti, sfruttati nel loro peregrinare in Italia seguendo le stagioni della raccolta dei diversi prodotti, ora queste condizioni toccano anche le italiane e gli italiani.La nuova legge corresponsabilizza gli imprenditori, che chiedono ai caporali mano d’opera a prezzi stracciati.È importante che anche le imprese stiano reagendo. Questo provvedimento va a vantaggio della legalità di tutti: delle aziende, che non devono subire la concorrenza scorretta di chi usa manodopera in nero, e ovviamente dei lavoratori. È mia intenzione invitare le associazioni degli imprenditori per discutere assieme. Spero inoltre in un’iniziativa simbolica, un momento forte con sindacati e imprese: entro l’autunno, magari per la raccolta delle olive, ho dato la mia disponibilità a visitare un territorio che si è messo al passo con le regole, per dire no a chi continua a fare orecchie da mercante. Un’alleanza contro lo sfruttamento. È importante valorizzare lo sforzo di chi vuole adottare una certificazione di qualità su prodotti coltivati e raccolti in modo pulito. È una garanzia per il consumatore, che potrà premiare le aziende virtuose. Non tutti i pomodori, non tutti gli oli d’oliva, non tutte le angurie sono uguali.La novità della legge è proprio la responsabilizzazione delle aziende che non possono più dire: non sapevo. Così si diventa di fatto "mandanti" del reato.L’imprenditore che sfrutta, spesso dice di non sapere. Ma se non ci fosse la richiesta non ci sarebbe caporalato. Nel disegno di legge viene introdotta la fattispecie della corresponsabilità dell’azienda. È questo lo snodo. Gli imprenditori che sfruttano i lavoratori sono una parte minoritaria. Le aziende sane devono metterli all’angolo perché danneggiano non solo i lavoratori ma anche le aziende stesse. Bisogna creare un’alleanza tra lavoratori, sindacati e associazione delle imprese contro lo sfruttamento che fa male a tutti. Ai lavoratori italiani e stranieri, alle imprese, all’economia, all’immagine del Paese.Il progetto è stato assegnato alle commissioni Giustizia e Lavoro. Che tempi si prevedono perché diventi legge?Credo sia nell’interesse di tutti i gruppi qui alla Camera fare un lavoro condiviso per dare un segnale chiaro e forte: non è più tollerabile che nel nostro Paese i caporali agiscano liberamente.Il "ghetto dei bulgari" a Manfredonia, dove vivono anche 400 minori, c’è da cinque anni, ignorato dalle istituzioni locali. Forse perché è funzionale a una filiera "sporca"?Sono tanti gli interessi dietro al fenomeno del caporalato. È un sistema che spesso non funziona, ma non può essere l’anello più debole a pagare le disfunzioni della filiera agricola. Capisco le difficoltà dei produttori, ma la soluzione non può essere lo sfruttamento.In Trentino i raccoglitori stagionali sono tutti regolarizzati: lì i piccoli produttori di mele si riuniscono in grandi consorzi per abbattere i costi.Evidentemente bisogna ragionare su tutto il sistema che ha serie disfunzioni. Questa deve essere l’occasione per riequilibrarlo. Chi è che stabilisce i prezzi, spesso troppo bassi, dei raccolti?Tra i braccianti sfruttati ci sono moltissimi richiedenti asilo e rifugiati. L’Italia è esemplare nella sua opera di salvataggio in mare di migliaia di migranti. Poi però finiscono nei Cara dove spesso non c’è accoglienza adeguata. E finiscono per diventare preda dei caporali. L’impostazione è molto diversa tra gli stessi paesi dell’Unione europea. C’è una direttiva sull’accoglienza, non sull’integrazione. La Germania ha deciso di fare un investimento che nel medio periodo la ripagherà. Angela Merkel ha acconsentito all’ingresso di un milione di profughi siriani lo scorso anno. È stato un calcolo da statista: la popolazione tedesca, come quella italiana, invecchia. Secondo recenti stime, per mantenere gli stessi livelli di previdenza, il Paese ha bisogno di mezzo milione di immigrati l’anno, in attesa di una ripresa delle nascite. I rifugiati siriani giunti lo scorso anno sono classe media, hanno competenze professionali: la Germania consentendo il loro ingresso, non solo ottempererà agli obblighi internazionali, ma ne trarrà benefici. Per questo ha deciso di investire 20 miliardi l’anno per cinque anni per l’integrazione: corsi di lingua, formazione, sussidi per l’alloggio, un percorso di diritti e di doveri. Noi italiani siamo eccezionali nel soccorso in mare: non finirò mai di ringraziare la Guardia Costiera e la Marina militare. Ma dopo questo grande sforzo, facciamo ancora troppo poco per l’integrazione: che non è un processo spontaneo, ma un percorso complicato che passa per la conoscenza della lingua e per il rispetto della cultura, delle usanze, della religione del Paese che accoglie. La società italiana può solo trarre giovamento da una politica di integrazione a medio e lungo termine. È la sua mancanza che crea xenofobia. L’antidoto al razzismo è l’investimento sull’integrazione, che consenta la conoscenza e il rispetto reciproci.