È ancora ottimista. Come un mese fa, al Forum di Cernobbio. Ignazio Visco, numero uno della Banca d’Italia, lo ribadisce a chiusura dell’incontro con i cronisti di "Avvenire": «Siamo ottimisti. Dobbiamo esserlo!». In un botta e risposta di quasi due ore a Palazzo Koch, accanto alla convinzione che «stiamo uscendo dal tunnel» manifesta anche perplessità davanti a un Paese ancora frenato dalle sue «rigidità», un’Italia da «innovare» e «ri-organizzare» quasi pezzo per pezzo, che non vede ancora scorrere nelle sue arterie quelle azioni che sarebbero necessarie per una ripresa stabile e, soprattutto, in grado di alleviare il dramma della disoccupazione. E questo malgrado, sul piano del credito, i prestiti a famiglie e imprese stiano ripartendo.
Governatore, lei ha parlato di recente di un «ottimismo nuovo». I barlumi di ripresa sono dovuti però a fattori soprattutto esogeni, come il calo del prezzo del petrolio e la caduta dell’euro che favorisce l’export. Siamo davvero alla fine del tunnel della crisi?Si può guardare alle prospettive economiche, dell’area dell’euro e dell’Italia, con più ottimismo, per fattori esterni favorevoli certo, e tra questi il più importante è il calo del prezzo del petrolio. Ma anche per le politiche adottate. Il tasso di cambio, pur non essendone un obiettivo, riflette l’orientamento della politica monetaria. La linea d’azione della Bce sta esercitando un forte impulso, soprattutto dopo la decisione di estendere ai titoli di Stato il programma di acquisto di attività finanziarie. E poi in Italia l’azione di riforma sta procedendo. È vero che gli indicatori congiunturali recenti non sono univoci. Ma i segnali positivi si stanno intensificando. e prefigurano una progressiva ripresa di vigore già da questo secondo trimestre. Nell’insieme, quindi, penso che sì, stiamo uscendo dal tunnel.
Intanto il governo Renzi sta varando il Def. Il quadro in esso tracciato è condivisibile?Per un giudizio compiuto bisognerà attendere la pubblicazione. Posso dire che secondo le previsioni, nostre e dei principali analisti pubblici e privati, il Pil potrebbe espandersi a un ritmo anche superiore al mezzo punto percentuale nella media di quest’anno e accelerare significativamente nel 2016, attorno al punto e mezzo. Pensando a un orizzonte più lungo, abbiamo davanti a noi un’opportunità da non perdere per continuare ad affrontare risolutamente i nostri ben noti problemi strutturali.
Ma sarà una ripresa accompagnata da nuovi posti di lavoro?Che la ripresa si traduca rapidamente e integralmente in un aumento dei posti di lavoro non è così ovvio. Nei nostri settori tradizionali di specializzazione, anche per la concorrenza delle economie emergenti, si è registrata una significativa caduta della produzione, dei prezzi e dei margini di profitto. Il ritorno duraturo a una crescita ricca di lavoro richiederà, anche alla luce delle nuove tecnologie, un cambiamento profondo, un’azione continua di riforma. Una variabile di cruciale importanza è la dimensione d’impresa. Non sempre le piccole imprese sono indice di debolezza; nel complesso, tuttavia, la ridotta dimensione dell’impresa italiana ne limita la capacità di innovare, di ristrutturare i processi produttivi e di mutare radicalmente la strategia aziendale.
Non è che, negli anni, abbiamo messo troppa enfasi sulle riforme del mercato del lavoro, mentre le famose "riforme strutturali" sono anche altre?È vero. Il funzionamento insoddisfacente del mercato del lavoro è sicuramente un ostacolo all’attività di impresa, ma non è il solo. In un contesto poco propenso all’innovazione come quello italiano, una maggiore flessibilità nel lavoro può servire a contenere i costi, ma se non accompagnata da altri interventi rischia di essere, in un contesto di crescente globalizzazione degli scambi, una strategia di breve respiro. È stato così anche nella nostra esperienza, con le riforme del lavoro introdotte negli anni Novanta, che pure sono state utili a generare occupazione e a portare il tasso di disoccupazione ai suoi minimi storici.
Cosa può fare ora lo Stato?Può sostenere la capacità di innovare non solo direttamente, ad esempio finanziando la ricerca, ma anche migliorando le condizioni di contesto in cui operano le imprese, le infrastrutture materiali e immateriali del Paese. La corruzione è uno degli ostacoli più rilevanti. Essa è elevata, sappiamo che la percezione che se ne ha è la più alta fra i Paesi avanzati. Ecco, anche l’istituzione dell’Anac è una riforma strutturale. Altri ostacoli reali all’attività di impresa e allo sviluppo dei talenti individuali vengono, oltre che dal mercato del lavoro, dalla diffusione della criminalità organizzata, dalle risposte lente e non omogenee della Pubblica amministrazione, dai ritardi della giustizia civile, dalla regolamentazione eccessivamente restrittiva in alcuni comparti dei servizi, dal declino del sistema di istruzione. Creare condizioni di contesto più favorevoli è un fattore determinante anche per attrarre gli investimenti esteri. Su molti di questi fronti è stata avviata un’azione di riforma. Occorre insistere, allargando lo spettro degli interventi e accelerando la fase attuativa.
C’è poi la questione generazionale. Si lamenta spesso il fenomeno della "fuga dei cervelli"...Il problema è che non siamo un Paese ad alto capitale umano. Una statistica per tutte: tra le persone di 30-34 anni i laureati sono il 23% in Italia, contro il 38% in Europa. Il 70 per cento degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e articolati e una quota analoga non è in grado di utilizzare ed elaborare esercizi di aritmetica. Questo è un problema enorme.
Sulla scuola è stata appena avviata una riforma. È positiva?La scelta di investire sull’autonomia scolastica e sulla responsabilizzazione dei dirigenti scolastici è corretta. Sarà però essenziale il rafforzamento dei meccanismi di valutazione esterna, dei dirigenti scolastici e delle scuole. Il quadro è complesso. Bisogna dare incentivi a chi opera nella scuola per ritrovare motivazione. La selezione degli insegnanti deve fondarsi su concorsi ben fatti e trasparenti. E servono investimenti anche nelle strutture scolastiche.
A proposito di capitale umano, che non viene intercettato da una misurazione della ricchezza come semplice Prodotto interno lordo: ritiene che altri indicatori possano risultare utili?In Banca d’Italia abbiamo sempre prestato grande attenzione a non identificare la crescita del benessere con quella del Pil. Del resto, sono gli stessi grandi economisti che hanno posto le basi della contabilità nazionale, Richard Stone e Simon Kuznets per nominarne solo due, a metterci in guardia contro questa semplificazione. Non si può però pensare di andare all’estremo opposto e ignorare l’importanza del Pil. Ritengo che sia necessaria una prospettiva "multidimensionale" del benessere umano, e sono contrario ad avere un solo indice sintetico. Gli indicatori delle varie "dimensioni" del benessere vanno affiancati e confrontati. Ad esempio, quelli che rientrano nel progetto per la misurazione del benessere equo e sostenibile (Bes) - un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat - stanno bene accanto al Pil. La definizione del Bes è un’operazione concettualmente importante, la Banca d’Italia ha collaborato sia alla sua elaborazione analitica sia alla costruzione degli indicatori statistici elementari.
Veniamo ai conti pubblici. Non preoccupa la spesa pubblica che continua a salire?Va premesso che dal 2011 la spesa corrente primaria è cresciuta in media dell’1 per cento all’anno, contro circa il 4 nel decennio precedente. Nel 2014 è cresciuta dell’1,2%, nonostante la contabilizzazione tra le prestazioni sociali del cosiddetto "bonus degli 80 euro". La spesa italiana è alta per via della quota per gli interessi, ma senza questa componente è prossima alla media europea. Il punto cruciale è che va fatta un’opera di razionalizzazione della spesa, che non vuol dire solo tagliarla: si tratta di essere più efficienti nell’allocazione delle risorse e del personale.
E il debito pubblico?La sostenibilità del nostro debito non è in discussione. Il tasso sui Btp decennali oggi è inferiore all’1,5%. Prima lo
spread alto rifletteva in gran parte i timori sulla tenuta dell’Unione monetaria. Questi timori sono stati fugati, oltre che dalla prudenza nella politica di bilancio nazionale, dal rafforzamento della
governance europea e dalle misure eccezionali di politica monetaria adottate dalla Bce, da ultimo il "
Quantitative easing", finalizzato a riportare l’inflazione in linea con l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio, introdotto nel 2012, garantirà nel tempo una discesa graduale del rapporto debito/Pil, anche in caso di condizioni macroeconomiche non favorevoli. E il ritorno a un’inflazione prossima al 2% e a una crescita di almeno l’1% renderà più rapida questa riduzione.
Sarà problematico centrare il pareggio di bilancio?Va detto che qui si parla di pareggio strutturale, che è in pratica quello che voleva Keynes, cioè avere un deficit nei periodi cattivi e un surplus nei periodi buoni. Il nostro limite è stato aver mantenuto dei disavanzi anche nei periodi buoni, ad esempio a cavallo del nuovo millennio. Oggi scontiamo quell’errore. Negli ultimi sei anni, quelli della crisi, il nostro debito è cresciuto di 30 punti. Quasi 4 sono dovuti al finanziamento degli aiuti a Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, il resto deriva soprattutto dalla mancata crescita. Per questo dobbiamo fare le riforme, per tornare a crescere.
Gli 80 euro non sembrano aver stimolato più di tanto la domanda. È stata una scelta giusta o sbagliata?Il governo ha scelto questa strada, altri avevano suggerito aiuti indirizzati direttamente alle imprese e agli investimenti. L’importante è che un sostegno alla domanda ci sia stato. Da questo punto di vista il giudizio espresso dalla Banca d’Italia è stato nel complesso favorevole.
E la pressione fiscale? Non è un freno?È alta. Lo è sul lavoro, dove però sono stati compiuti primi importanti passi per la sua riduzione. Sulla casa le imposte in media non sono fuori linea rispetto ai principali Paesi Ue, ma sono state modificate ripetutamente e in tempi brevi, accentuando la percezione dell’inasprimento nel 2014. Alla riduzione della pressione fiscale deve contribuire anche il contrasto all’evasione, che va rafforzato sempre di più come ora si sta facendo, anche con una serie di accordi internazionali. Sono importanti anche semplicità e stabilità del quadro normativo.
Aumentano le sofferenze bancarie. La cosiddetta "bad bank" è lo strumento adatto per affrontarle?Il credit crunch c’è stato, e molto forte. Con dieci punti percentuali di Pil persi in sei anni - e se guardiamo all’industria addirittura 25 - le imprese si sono trovate in difficoltà. Abbiamo ora 180 miliardi circa di sofferenze, che ostacolano la ripresa del credito. Si può quindi immaginare un’iniziativa pubblica che compensi quello choc. Lo Stato interverrebbe, quindi, per compensare una "diseconomia". C’è poi un fallimento del mercato: le banche, pur volendo cedere i crediti deteriorati, trovano sul mercato compratori a prezzi particolarmente bassi: questi riflettono non solo l’elevato rischio macroeconomico ma anche i tempi assai lunghi di recupero dei crediti, in buona parte dovuti ai ritardi della giustizia civile. Un intervento pubblico può servire appunto ad attenuare gli effetti dei tempi lunghi di recupero e a liberare risorse per erogare nuovi prestiti, anche attraverso una partecipazione diretta alla gestione e al recupero dei crediti deteriorati.
Si incontrano però resistenze a Bruxelles.I nostri esperti stanno lavorando assieme a quelli del Tesoro per trovare gli strumenti più adatti. In seno alla Commissione, in questo momento, ci sono due culture che si confrontano: una più attenta alla sostanza economico-finanziaria dei problemi, per la quale probabilmente interventi di questo tipo non sono aiuti di Stato non consentiti, e una - altrettanto importante, si badi bene - più attenta agli aspetti giuridico-formali.
Da pochi giorni è stata approvata la riforma delle Popolari. Cos’è che non funzionava?La posizione della Banca d’Italia è maturata da un’analisi lunga e approfondita. Noi abbiamo collaborato con il governo nell’attività propedeutica alla definizione delle misure, ma come è ovvio la responsabilità politica è dell’esecutivo. Bisogna prendere atto di cosa siano le grandi popolari oggi: banche cooperative in cui il carattere di mutualità non è più prevalente. Una mutualità piena appartiene invece alle banche di credito cooperativo. Di fatto, banche come le grandi popolari italiane in Europa non sono diffuse. Le banche cooperative e mutualistiche invece sì, e sono generalmente organizzate su diversi livelli. Un primo livello legato al territorio, un secondo associato - magari in federazioni o banche regionali - per offrire servizi comuni, ad esempio sul fronte dei pagamenti e della tecnologia, e, all’apice, una struttura di terzo livello. Penso ad esempio a Crédit Agricole, che fa attività di banca in settori diversi e lontani da quelli di banca del territorio. Da noi le grandi popolari hanno mantenuto alcune caratteristiche del sistema cooperativo - voto capitario, limiti alla partecipazione - e hanno però espanso la loro attività e la loro compagine sociale in territori ben lontani da quelli di origine. Noi in queste popolari abbiamo rilevato molteplici carenze. E abbiamo dovuto spingerle a ricapitalizzarsi, ad aumentare il patrimonio per affrontare le grandi difficoltà macroeconomiche di cui abbiamo parlato.
Perché la soglia come gli 8 miliardi di attivi?A giugno scorso la più piccola di quelle che stanno sopra tale soglia aveva circa 12 miliardi di attivi, quella più grande che sta sotto ne aveva circa 6: 8 miliardi è un livello rispetto al quale c’è abbastanza distanza in entrambi i casi. Una soglia ragionevole, dunque. Quanto al limitare la trasformazione in Spa alla banche quotate, non avrebbe affrontato i problemi di governance e autoreferenzialità di certe grandi popolari - non quotate - con attivi ben superiori a 8 miliardi.
Non si rischia di offrire il fianco ai fondi esteri, magari speculativi?L’idea che ci sia tanta speculazione in giro per il mondo che voglia prendere le banche italiane per far suo il risparmio degli italiani e portarlo da un’altra parte non mi convince: la trovo fantasiosa. Credo invece che occorra essere molto attenti nel valutare eventuali operazioni di aggregazione. E bisognerà essere molto attenti anche nella fase di definizione delle modalità attraverso cui gli aumenti di capitale andranno effettuati, laddove non ci saranno aggregazioni.
Le Bcc stanno facendo il loro percorso e mantengono l’aspetto della mutualità. In questo caso basterà dunque l’autoriforma?Il problema è: se una Bcc ha bisogno di ricapitalizzarsi rapidamente non può farlo, perché l’unico strumento è l’autofinanziamento e quindi i profitti. E se non li fa a causa della crisi? Per questo l’idea di avere dei gruppi è fondamentale, e l’autoriforma va in questa direzione. In Europa funziona così. Non è tanto un problema di dimensioni, quanto di governance. Ci possono essere delle banche medie con un attivi ben diversificati, una raccolta stabile in un territorio di buon sviluppo e un buon grado di liquidità.
Il "Quantitative easing" della Bce favorirà anche una maggiore erogazione del credito?Il credito a imprese e famiglie può crescere grazie al miglioramento macro-economico: perché a fronte di un aumento della domanda di credito, ci sarà anche una riduzione del rischio percepito dagli intermediari bancari. E le operazioni mirate di rifinanziamento presso l’Eurosistema potranno ridurre il costo della raccolta per gli intermediari. Un buon segnale viene dal fatto che le banche italiane abbiano partecipato con tanto vigore alla recente terza operazione.
Ma la finanza domina l’economia reale?Come ricordava Amartya Sen, la finanza è generalmente considerata "un’attività moralmente dubbia", ma anche "estremamente utile". Perché consente di spostare i fondi nello spazio e nel tempo. Di trasferirli "dove" servono, e da quando si accumulano a quando si devono utilizzare. La delicatezza di questa funzione spiega perché ci vuole un apparato di regolamentazione e controllo.
Sembra che a volte sia andata più veloce la parte sregolata…In parte e non da noi. Le banche italiane sono andate in realtà bene anche nei test europei, nonostante talune, non approfondite, letture. Le difficoltà di alcuni intermediari sono soprattutto eredità di episodi passati di "mala gestio" che, in raccordo con l’autorità giudiziaria, abbiamo contribuito a portare alla luce.
Che effetto fa al governatore della Banca d’Italia sentire il Papa che parla spesso di "idolatria del denaro"?Il mercato è necessario ma va regolato. Nel nostro piccolo, lo abbiamo ricordato molte volte. Le regole del gioco devono essere chiare e rispettate. Nelle banche è fondamentale che ci sia una visione di medio-lungo periodo: il perseguimento del profitto immediato porta a trascurare i rischi.