I calcoli Ocse. La «condanna» dei ventenni: per la pensione dovranno lavorare 50 anni
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Delle trentotto nazioni che fanno parte dell’Ocse, l’organizzazione che si occupa di studi economici per le economie sviluppate, ce ne sono solo cinque in cui il reddito medio delle persone con più di sessantacinque anni è superiore a quello del resto della popolazione. È un gruppo di Paesi ristretto ma variegato: comprende Lussemburgo, Israele, Costa Rica, Messico e Italia.
Calcola l’Ocse nel suo studio annuale sui sistemi pensionistici che in Italia il reddito degli ultrasessantacinquenni è pari al 103% della media nazionale: più precisamente è molto elevato il reddito di chi ha tra i 66 e i 75 anni (il 111,6% della media nazionale) mentre quello di chi ha più di 75 anni è più basso (al 94,2%). Questo sbilanciamento dei redditi verso la popolazione più anziana è un’anomalia: in media nell’area Ocse il rapporto tra il reddito degli ultrasessantacinquenni e quello del resto della popolazione è dell’88%. Dovrebbe essere normale che chi è in età lavorativa guadagni più di chi è andato in pensione. In Italia però non succede e tra i numeri “freddi” del rapporto dell’Ocse si trovano altri elementi allarmanti sulle prospettive del Paese.
Il primo problema resta il nodo drammatico della demografia. Si prevede che il numero di persone in età da lavoro crollerà del 35% tra il 2022 e il 2062. Le carenze di manodopera, che le associazioni di imprese denunciano da tempo, diventeranno sempre più pesanti. Fra meno di trent’anni, cioè nel 2052, il rapporto tra ultrasessantacinquenni e 20-64enni raggiungerà il 78% contro il 54% della media Ocse. Chi avrà più di 65 anni però raramente sarà in pensione. L’analisi prevede che per un italiano nato nel 2000 e che abbia iniziato a lavorare nel 2022 il pensionamento non arriverà prima dei 71 anni: solo i danesi, tra i cittadini del’area Ocse, dovranno lavorare così a lungo. In Germania secondo le stime dell’Ocse i nati nel 2000 potranno andare in pensione a 67 anni, in Francia e Spagna a 65. Magra consolazione, per gli italiani del 2000, sarà che l’assegno pensionistico potrebbe raggiungere l’82% dell’ultimo reddito: ma questo solo nel caso in cui avranno avuto una carriera senza interruzioni. Cioè avranno versato contributi per quasi 50 anni (49, per la precisione).
Certo, alle generazioni precedenti è andata meglio. L’Italia è stata particolarmente generosa con i suoi pensionati, al punto che la sua spesa pensionistica non ha pari all’interno dell’area Ocse: sommando spesa pubblica e privata raggiunge il 17% del Pil, quasi il doppio della media, che è al 9,2%.
Come ha detto Renato Brunetta, in qualità di presidente del Cnel, quando martedì è intervenuto in Parlamento alla Commissione bicamerale di controllo sugli enti gestori della previdenza sociale «aver concesso per decenni pensioni non sostenute da un corrispondente gettito contributivo sta alla radice non solo del disavanzo pensionistico ma anche di gran parte del debito pubblico». Anche le parole dell’ex ministro della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione non sono state rassicuranti: «In mancanza di un riordino, il rischio di un collasso dell’intero sistema è verosimile, con una spesa stimata fino al 23 per cento del Pil attorno al 2030».
L’Ocse nella sua analisi cita le misure per facilitare ritiro dei lavoratori introdotte negli ultimi anni (prima Quota 100, poi Quota 102, quindi Quota 103) e nota che «la concessione di prestazioni relativamente elevate a età relativamente basse, come nel caso delle “quote”, contribuisce alla seconda spesa pensionistica pubblica più alta tra i paesi Ocse, pari al 16,3% del Pil nel 2021. Anche se l’aliquota contributiva è molto elevata, le entrate derivanti dai contributi pensionistici rappresentano solo circa l’11% del Pil, richiedendo finanziamenti sostanziali dalla fiscalità generale».