Verso il voto. Nella foga elettorale i partiti si sono scordati le imprese
Nelle stanze della reggia di Versailles otto manager e imprenditori italiani, assieme a circa 130 colleghi da tutto il mondo, ieri hanno potuto confrontarsi con i ministri del governo francese per discutere i dossier che li riguardano. C’erano invitati di tutti i tipi: i responsabili di colossi mondiali come JPMorgan, Facebook, Siemens e Alibaba assieme ai dirigenti di aziende di dimensioni più piccole, che hanno però una presenza significativa nel Paese. Tra gli italiani, c’erano i “giganti” Eni, Generali, Barilla e Fincantieri e poi Lavazza, che nel 2016 ha speso 700 milioni di euro per acquisire la rivale francese Carte Noire, la farmaceutica Chiesi, presente da oltre vent’anni in Francia dove ha recentemente investito 22 milioni di euro per potenziare il polo produttivo di Blois, Cuki Spa, che lo scorso anno ha comprato la rivale francese Ecopla, e Mermec, società di diagnostica ferroviaria che da anni lavora con Scnf, le ferrovie francesi.
A fine giornata il presidente Emmanuel Macron ha illustrato alla platea di dirigenti perché la Francia è il posto migliore su cui puntare in questo momento, rafforzando la sua argomentazione con l’annuncio di una manciata di nuovi accordi internazionali di investimento sia in ambiti di innovazione tecnologica che di industria tradizionale. “Choose France” è stato il motto dell’evento. Cioè "Scegli la Francia". Forte della sua brillante carriera nelle banche d’affari, Macron sa come trattare con le imprese. Il più giovane presidente della storia francese si sta rivelando molto abile nell’offrire una visione convincente del Paese che ha in mente.
«I nostri interessi in Francia vanno oltre la mera sfera commerciale, ma riguardano la produzione sostenibile del cibo e i rapporti di filiera, sfide su cui noi abbiamo costruito il nostro modo di fare impresa e che sono una priorità anche nell’agenda politica e economica del presidente Macron» conferma Guido Barilla, presidente del gruppo Barilla. «Ho visto nel presidente francese e nella sua squadra una grossa determinazione a rivalutare il brand Francia, e trovo che coinvolgere i principali investitori esteri per discutere della competitività e dell’attrattività del proprio Paese sia un segno di concretezza che diffonde grande fiducia» aggiunge Ugo Di Francesco, ceo del gruppo Chiesi, azienda che con 390 milioni di investimenti nel 2017 si è imposta come seconda impresa manifatturiera italiana per attività di ricerca e sviluppo, subito dopo il gruppo Leonardo. «Spero che iniziative di questo tipo diventino sempre più frequenti anche in Italia, dove realtà d’eccellenza come la nostra non sempre vengono capite e sostenute adeguatamente» nota Di Francesco.
Vista dalle stanze di Versailles l’Italia agli occhi di un dirigente d’azienda appare oggi un Paese lontano. Più distante delle quindici posizioni che la separano dalla Francia nella classifica del "Doing Business 2018", il rapporto della Banca Mondiale che mette in fila 190 nazioni in base alla loro capacità di attrarre investimenti e favorire l’attività di impresa. Secondo gli indicatori misurati dalla Banca Mondiale l’Italia ha alcuni punti di forza. È al primo posto nel mondo, assieme a Spagna e Belgio, nella facilità offerta alle aziende per importare ed esportare la merce. Si difende abbastanza bene, con posizioni tra la ventesima e la trentesima nella classifica mondiale, anche per quanto riguarda la rete elettrica, i trasferimenti di proprietà e le procedure di recupero dei crediti insolventi. Per altri aspetti, però, l’Italia è un disastro imprenditoriale. È solo 96esima al mondo per la possibilità di ottenere permessi di costruzione, 105esima per la facilità di avere finanziamenti, 108esima per la sicurezza di fare valere un contratto, il 112esima per la semplicità e la leggerezza fiscale.
Sono i soliti vecchi problemi italiani, noti a tutti già dai tempi della Prima Repubblica: complessità della burocrazia, lentezza della giustizia civile, eccessiva tassazione. Qualcosa, durante l’ultima legislatura, si è mosso. Il Jobs Act e le agevolazioni fiscali per le assunzioni che lo hanno accompagnato hanno reso più semplice l’ingresso di forze fresche nelle aziende. L’iperammortamento al 250% sugli investimenti legati all’aggiornamento in chiave 2industria 4.0" e il superammortamento al 140% sull’acquisto di beni strumentali hanno aiutato le imprese, passata la grande crisi, ad aggiornare le fabbriche e prepararsi a cavalcare la ripresa. È però mancato un piano d’insieme, una strategia nazionale complessiva per aiutare le imprese a creare benessere condiviso.
Chiudendo la sua relazione all’ultima assemblea di Confindustria, il presidente Vincenzo Boccia ha invocato un “Patto di scopo per la crescita” da stringere tra aziende, sindacati, banche e politica. Qualcosa su cui il Parlamento che uscirà dalle urne dopo il voto del 4 marzo sarà chiamato a ragionare. In questa campagna elettorale, tutta incentrata sulla rincorsa di promesse più o meno realizzabili, le forze politiche non si sono certo sprecate nello spiegare come intendano rendere l’Italia un Paese su cui le aziende possano puntare. Come se convincere le imprese a “scegliere l’Italia” non fosse una delle urgenze nazionali e l’ordinaria amministrazione fosse sufficiente a evitare che, quando progettano un investimento, i manager guardino altrove. Ad esempio oltre le Alpi.