L'analisi. Il prevedibile ritorno del drenaggio fiscale
La certificazione dell’Ocse della doppia botta sui salari che investe il mondo occidentale e in particolare l’Italia, arriva come una doccia gelata sulla Festa del lavoro. La catena degli eventi è beffarda: l’inflazione ha segnato le nostre economie ormai da più di due anni, fare la spesa è diventato più difficile, i contratti di lavoro hanno recuperato solo parzialmente il potere d’acquisto perduto ma – e qui arriva il problema – questi aumenti sono bastati per far scattare salti di aliquota e far affilare i denti al cosiddetto “fiscal drag”, il drenaggio fiscale.
Lo dice l’Ocse nel “Taxing Wages 2023”, appena pubblicato, e si vede che in Italia tra il 2021 e il 2022 c’è stato un aumento generalizzato dell’imposta sul reddito, cioè dell’Irpef, di 1,07 punti percentuali ben più della media dei 38 paesi più industrializzati. Significa che il meccanismo delle detrazioni e l’effetto sul fisco dell’attivazione del bonus Renzi-Conte di 100 euro non è stato sufficientemente piallato dalla riforma fiscale Draghi-Franco che pure era intervenuta con decisione sulle cosiddette aliquote marginali effettive, cioè quanto si paga in più su ogni incremento di salario.
Del resto basta vedere i dati dell’inflazione che, seppure in leggera contrazione, a marzo ha raggiunto il 7,6 per cento, con un carrello della spesa, quello che in fin dei conti interessa alle famiglie, ancora al 12,6 per cento. I contratti che pure sono stati firmati negli ultimi mesi raggiungono il 3-4 per cento: non recuperano tutto naturalmente anche per il senso di responsabilità delle parti sociali che hanno voluto evitare che si innescasse la temuta spirale prezzisalari. Tuttavia a conti fatti per i redditi più bassi tra i 25 e i 35 mila euro è inevitabile che il sistema delle detrazioni attivi il fiscal drag. Il “mostro” che aumenta il gettito dell’erario e toglie risorse ai lavoratori. Un esempio concreto? Il contratto firmato alla Stellantis per il biennio 2022-2023 prevede aumenti dell’11,3 per cento. Lo stipendio lordo di riferimento per questa azienda è attualmente di 25 mila euro su cui l’Irpef incide per il 14,5 per cento, con gli aumenti il lordo sale a 27.800 circa e l’incidenza media dell’Irpef a quota 16,5 per cento.
Dunque per effetto del solo aumento nominale del salari, che peraltro recupera l’inflazione, la pressione fiscale del lavoratore medio salirà di 1,9 punti percentuali. Il decreto atteso per lunedì prossimo, Primo Maggio, dedicato al lavoro contiene già un paio di interventi perlomeno controversi: il taglio e la complicazione del reddito di cittadinanza e l’allargamento dei contratti a termine. Nella direzione giusta va invece il taglio del cuneo fiscale attraverso un intervento sui contributi che arriva quest’anno a 4 punti con l’aggiunta di 3,5 miliardi. Ma si tratta di un intervento una tantum destinato soprattutto, e giustamente, agli stipendi più bassi sotto i 25 mila euro e dove il fiscal drag quasi non agisce (soprattutto nella no tax area, cioè sotto il 14.700 euro). Dunque non aiuta a compensare il fenomeno del fiscal drag.
Dunque per non far mangiare gli aumenti oltre che dall’inflazione anche dal fisco non resta che agire. I sindacati lo chiedono: il segretario della Cgil Maurizio Landini vuole un adeguamento delle detrazioni all’inflazione, così come anche Cisl e Uil sono pronte alle manifestazioni interregionali che si terrano a maggio in tutta Italia. Le risorse? Ormai anche la Bce parla di extraprofitti delle imprese da inflazione e il tema dell’evasione non può più essere accantonato. Quando il sistema era automatizzato con la scala mobile negli Anni Ottanta per via degli aumenti inerziali dei salari il “fiscal drag” mordeva di più, ma se non si vuole rimpiangere quei tempi (tanto più che in 17 paesi dell’Ocse ancora ci sono sistemi di adeguamento automatico) bisogna avere il coraggio di recuperare la legge del 1993, ancora in vigore, che impone la restituzione automatica, anche se parziale e legata alle detrazioni, del “fiscal drag”.