Economia

Lavoro. Il salario minimo arriva all'Onu: «Pagare di più chi è utile alla comunità»

Paolo M. Alfieri venerdì 20 ottobre 2023

«Il mondo va al contrario: i lavori più importanti per la comunità, come gli insegnanti e coloro che si occupano degli anziani, sono pagati poco, mentre altri, in industrie che creano danni sociali e ambientali come i combustibili fossili o il tabacco, hanno stipendi spropositati. Occorre capovolgere questa prospettiva: gli stipendi dovrebbero riflettere il contributo alla società, non la capacità di generare profitto. Inoltre, solo l’introduzione di un salario minimo in tutti i Paesi, anche in Italia, può contribuire a combattere il fenomeno del lavoro povero. Perché la contrattazione collettiva a livello sindacale resta importante, ma solo se poggia su una base comune salariale sufficientemente alta da contrastare povertà ed esclusione sociale». Lo sottolinea, ad Avvenire, Olivier De Schutter, Special Rapporteur dell’Onu sulla povertà estrema e i diritti umani, che oggi presenterà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il suo rapporto in cui esorta Stati e aziende a implementare il diritto ad un stipendio equo.

Olivier De Schutter, Special Rapporteur dell’Onu sulla povertà estrema e i diritti umani - UN Photo/Jean-Marc Ferre

Se il lavoro nobilita l’uomo, in almeno un caso su cinque, nel pianeta, quel lavoro non consente infatti all’uomo di sollevarsi dalla povertà. Di più: nota il rapporto che nemmeno gli incrementi di produttività tendono a tradursi in salari migliori per i lavoratori, soprattutto a causa dell’aumento di forme di lavoro atipiche e dell’indebolimento delle organizzazioni sindacali. Il fenomeno del “lavoro povero”, insomma, è tutt’altro che residuale: la sua incidenza, anzi, è in aumento. Sono 712 milioni nel mondo le persone a cui il lavoro non garantisce un’esistenza dignitosa. Nei Paesi a basso e medio reddito rispettivamente il 44 e il 52% dei lavoratori sono moderatamente o estremamente poveri: in Africa il dato raggiunge il 54,8%, in Asia e nel Pacifico il 21,3%. Anche negli Usa ci sono almeno 6,3 milioni di lavoratori poveri, ovvero il 4,1% del totale. Nell’Ue già nel 2017 i lavoratori poveri costituivano il 10% della popolazione lavorativa attiva (+8% di dieci anni prima).

Per De Schutter, la posizione di diversi sindacati, spesso contrari al salario minimo, «è troppo ottimistica riguardo alla loro possibilità di difendere efficacemente i diritti dei lavoratori in un mondo profondamente cambiato. La globalizzazione, la competizione tra Paesi per l’abbassamento del costo del lavoro, l’automazione, la diffusione estrema di forme di lavoro atipiche che hanno sì alzato i tassi di occupazione ma a costo di indebolire i lavoratori, sono tutti fattori che giocano contro. Spesso gli stessi governi sono più interessati a non far rallentare l’economia e a deprimere il Pil che non a salvaguardare diritti e dignità dei lavoratori. In Italia succede spesso in agricoltura, dove assistiamo anche allo sfruttamento dei migranti».

Il rapporto fa notare come la pandemia prima e l’impennata dell’inflazione del 2022 abbiano peggiorato il quadro. Nel 2020 la percentuale di lavoratori in povertà estrema è aumentata per la prima volta in due decenni fino al 7,2% dal 6,7% del 2019, colpendo altri 8 milioni di persone, soprattutto giovani e donne. L’alto tasso di inflazione del 2022 ha ancora di più evidenziato la vulnerabilità dei lavoratori i cui salari non hanno visto nessun adeguamento ai rincari: in termini reali i salari mensili sono calati dello 0,9% nel 2022, il primo calo di questo secolo.

Rimangono consistenti, inoltre, i divari tra uomini e donne. Queste ultime guadagnano 73 centesimi ogni dollaro guadagnato dagli uomini nei Paesi ricchi, e 43 centesimi nei Paesi a basso reddito. In Bangladesh e India, quasi due terzi dei lavori sono informali e non strutturati, ma anche negli Usa circa il 10% dei lavoratori hanno lavori a chiamata spesso in forma irregolare. La produzione sempre più esternalizzata e subappaltata verso “unità economiche flessibili” fa il gioco delle aziende, ma non dei lavoratori, che hanno sempre meno garanzie. L’emergere della stessa “gig economy” non sembra essere casuale. Per De Schutter, il rapporto «cerca di mandare un messaggio, e cioè che i salari non sono immutabili, ma sono il risultato di rapporti di forza e lo Stato deve porsi dalla parte del lavoratore. Molti Paesi ritengono purtroppo che mantenere i salari bassi aumenti la loro competitività nelle catene di fornitura globali, ma questa non è una strategia percorribile né tanto meno sostenibile, hanno tutti da perderci. Ho visto di persona in Bangladesh come diverse aziende nel settore dell’abbigliamento facevano pressione sui fornitori per ridurre il costo del lavoro: questo non è più accettabile, chi lavora ha diritto a un salario dignitoso grazie al quale potersi mantenere».