L'ECONOMIA DELLA SPERANZA. I giovani che fecero l'impresa sociale
C'è un modo di intendere e fare economia che è più forte della crisi: è quello delle imprese sociali, che puntando sul valore delle relazioni, del fare rete e sull’innovazione hanno continuato in questi anni a creare lavoro e sviluppo, nonostante tutto. A dirlo sono i primi dati resi noti dall’Osservatorio sulle imprese sociali curato da Isnet con la partecipazione scientifica di Aiccon. Dal 2008 a oggi il 45,3% delle imprese sociali (oltre un migliaio quelle con cui dialoga Isnet) ha aumentato il personale. Quasi il 70%, inoltre, ha dichiarato che sino al 2013 il numero degli occupati non subirà variazioni. A conferma che il modello dell’impresa sociale non solo è ad alta intensità di lavoro, ma è anche in grado di preservarlo, il lavoro, in fase di crisi economica.
Non si deve però credere che l’economia sociale sia immune dalla crisi per una sorta di grazia ricevuta: sono il 39%, infatti, le imprese sociali che parlano di andamento economico «in difficoltà», in aumento di ben 15 punti percentuali rispetto alla prima edizione dello studio, nel 2007. Ma c’è pure un 24% che si dichiara «in crescita»: sono le organizzazioni con una migliore performance nelle relazioni con gli stakeholder, più spiccata propensione all’innovazione e maggior dinamismo occupazionale. Elementi su cui occorre evidentemente investire se si vuole stare a galla anche durante la tempesta della crisi. «Ha una visione migliore sul futuro chi ha propensione maggiore all’imprenditorialità e quindi maggior orientamento al mercato – spiega il direttore di Aiccon, Paolo Venturi –. Naturalmente non si chiede a tutti i cooperatori sociali di diventare imprenditori, ma è decisivo capire che l’imprenditorialità (collettiva) è la miglior garanzia per una più efficace e sostenibile prospettiva per l’inclusione sociale e la costruzione di servizi utili alla comunità».
Che siano sempre di più coloro che guardano alle imprese sociali come a un modello efficace per arginare la crisi, è testimoniato da iniziative come quella recente di Unioncamere, che intende costituire presso le Camere di commercio italiane un Comitato per l’imprenditorialità sociale e il microcredito: l’obiettivo è far crescere la rete di organismi all’interno del sistema camerale (già oggi quasi una trentina si occupano di economia civile) che promuovono l’imprenditoria sociale e le partnership tra aziende profit e non profit, nell’ottica della costruzione di un modello di sviluppo più sostenibile e attento ai bisogni del territorio.
Andrea Di TuriImmigrati
«Aiutiamo il dialogo con gli stranieri.
E per resistere facciamo squadra»
La cooperazione sociale – con un’occupazione cresciuta dell’8%, e quasi 80 mila imprese che danno lavoro a un milione e 382mila persone – rappresenta una dimensione sempre più rilevante nell’economia italiana, e gli under 35 aspirano a diventare protagonisti anche in questo settore, dove gli ostacoli alla realizzazione di percorsi che mescolano vocazione, valori e competenze sono minori. Ma la spending review incombe. Già oggi, secondo Federsolidarietà, i ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni sono triplicati, dai 120-150 giorni di attesa a 300-350, soprattutto da parte di Asl ed enti locali. Questo significa stare mesi senza stipendio per un cooperatore, che guadagna in media 1.000-1.200 euro netti al mese. Ma i giovani soci della cooperativa bergamasca Kinesiscontext, del consorzio Cgm, una delle esperienze più interessanti del panorama italiano, hanno deciso che una soluzione si poteva trovare per non annullare un decennio di progetti, lavoro, sogni e aspirazioni.
«Oggi alle tradizionali caratteristiche del cooperatore occorre aggiungere quella della flessibilità – spiega Marco Vanoli, 36 anni direttore di Kinesiscontext, cooperativa sociale che gestisce servizi sociali ed educativi – perché la nostra generazione deve fare i conti con problemi sociali nuovi, ma anche con un sistema di erogazione dei servizi ormai completamente cambiato». Kinesiscontext è nata nel 2003 con un obiettivo stimolante: ridurre il divario comunicativo tra pubblica a amministrazione e cittadini immigrati. Tradotto, non assistenza, ma un lavoro di mediazione culturale per consentire l’accesso ai servizi scolastici, sanitari e socio assistenziali a chi non parla una parola d’italiano.
«La coabitazione multiculturale costituisce uno degli aspetti su cui la cooperativa sta spendendo le proprie energie – spiega Vanoli, laurea in filosofia con una specializzazione in comunicazione – e per noi significa un riconoscimento di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla loro nazionalità, dall’altro il riconoscimento di un diritto alla differenza, alla manifestazione della propria specificità e tradizione culturale, da intendersi sia per la popolazione italiana che di origine straniera».
Il lavoro si svolge su vari fronti, dalla mediazione con gli operatori degli uffici pubblici, ai condomini, a progetti di comunicazione su Internet. Spesso, però, basta la traduzione di un regolamento affisso in una casa popolare per migliorare la convivenza tra italiani e stranieri, coinvolgendo le comunità informali e organizzate come i comitati e le associazioni creando rete e cittadinanza attiva. E riducendo il digital divide nei quartieri, che rischia di escludere dal sistema scolastico i bambini come dall’accesso ai servizi gli adulti creando oggi sacche di emarginazione e domani delinquenza e potenziali conflitti razziali.
«In alcuni Comuni della provincia di Bergamo – aggiunge Vanoli – il numero dei cittadini stranieri residenti è passato dalle 20mila unità del 2000 alle oltre 82.000 del 2007, quadruplicandosi in 7 anni. A Zingonia la densità arriva fino al 75%. Questo significa che un’amministrazione comunale si trova ad affrontare una gamma completamente nuova di problemi. Noi offriamo ad Asl e Comuni progetti di comunicazione interculturale che rispondono a queste nuove esigenze».
Ma come è nata questa vocazione? Vanoli, dopo il servizio civile nel 2001 con i migranti, ha scelto di restare nel settore. «Dietro la mia scelta ci sono anche motivazioni personali di tipo religioso. Ho incontrato altri giovani e con tre colleghi stranieri abbiamo deciso di fondare la cooperativa nel 2004. Nel 2005 siamo partiti». Resta la questione della sostenibilità economica in tempi di pagamenti differiti. Come fate a resistere? «Ci siamo posti la domanda se proseguire o no, visti i ritardi nei pagamenti e le difficoltà che oggi abbiamo nel lavoro con i Comuni. Siamo nel consorzio Cgm, quindi non siamo soli, ma noi abbiamo risposto scegliendo la flessibilità e dotandoci di partita Iva per sostenere la cooperativa e proseguire questa esperienza, che per noi è fondamentale. Anche per conservare una certa libertà, che resta fondamentale».
Paolo Lambruschi
L'impegno al Sud
«Emigrata da Bergamo alla Calabria
Il sogno? Cambiare il mondo in meglio»
La scelta che le ha cambiato la vita l’ha fatta alla fine degli anni 90 dopo un campo scuola in Calabria, a Fuscaldo, vicino a Cosenza. Da allora, Giusy Brignoli, oggi 37enne, bergamasca, compiendo un percorso migratorio decisamente controcorrente ha scelto di vivere sulla sua pelle le contraddizioni e le bellezze di quella terra. Così si è trasferita al Sud nel 2001 per costituire con tre amiche la cooperativa sociale Il Segno, contando sul sostegno di un buon numero di volontari. Migrante per cause ideali e per la fede, non si è mai pentita di aver seguito la propria vocazione nonostante abbia passato tempi duri. «La Calabria è un giardino del Creato – dice Giusy – eppure non offre lavoro. La prima cosa che desideravo era condividere le difficoltà con altri giovani calabresi. Combattere la disoccupazione vuol dire togliere l’acqua al pesce, alla ’ndrangheta». Così a Fuscaldo hanno creato anche l’associazione Goel, nata dopo aver incontrato e ascoltato l’allora vescovo di Locri Gianfranco Bregantini, e mirata all’ascolto e all’accompagnamento delle persone più deboli. Ma i Comuni del Sud hanno le casse vuote e il lavoro mancava già allora.
«È stata dura – ammette Giusy – abbiamo fatto anni senza lavorare, imparando ad accontentarci del poco di cui vivono tante famiglie del Mezzogiorno». Hanno diversificato l’offerta e avviato una linea di produzione di prodotti tessili accanto ai servizi di accompagnamento e ascolto alle persone in difficoltà, entrando nel Progetto Policoro della Chiesa italiana. «Abbiamo avviato anche rapporti di reciprocità Nord-Sud promossi dal Progetto Policoro dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano. Questa estate si sono tenuti campi di lavoro di adolescenti cui hanno aderito diocesi come Bergamo e Cremona. È uno scambio culturale importante. Quanto alle vendite, nei primi anni abbiamo testato i nostri prodotti partecipando a diverse fiere in tutta Italia, poi nel febbraio 2007 abbiamo aperto una bottega solidale nel centro storico di Paola e abbiamo cominciato a coltivare prodotti tipici dell’agricoltura bio e a venderli con successo».
Problemi con malavita organizzata? «Non ne abbiamo mai avuti. In paese si sa chi sono i mafiosi, a volte alcuni di questi personaggi si sono avvicinati ai campi a vedere cosa stavamo facendo, ma non abbiamo mai ricevuto minacce. Questo nonostante il nostro sia chiaramente un impegno anti-mafia, giocato soprattutto sul piano concreto e delle scelte etiche anche in campo lavorativo». Con la cooperazione sociale nessuno vuole arricchirsi, ma si può arrivare molto lontano. Ora Il Segno va meglio e Giusy guarda al futuro con maggiore serenità. Le ragazze tenaci della coop hanno chiesto al Comune di Paola di acquisire una stazione ferroviaria dismessa per ristrutturarla, grazie anche all’aiuto dei volontari, e impiantarvi una filiera produttiva del bio. È un passo importante per creare una vera e propria industria, dare lavoro e lasciare una testimonianza forte di come i giovani possono ancora cambiare il mondo anche dove sembra più difficile».
Educazione
«Avvicinare i più piccoli alla lettura.
Una sfida e un investimento nella mia terra»
Difficile riuscire a restare in Sardegna, la tua terra, se sei una giovane donna laureata. Anche se rimanere vuol dire resistere e progettare un futuro, sfide che soprattutto un giovane può e vuole affrontare. Maria Solinas, 26 anni, da Buddusò, quattromila anime nel cuore dell’isola, ha centrato l’obiettivo. Da alcuni mesi lavora nella cooperativa sociale «Liber», cui il Comune ha affidato la gestione della biblioteca comunale e, più in generale, la promozione della lettura per l’infanzia.
«Il progetto è avvicinare i bambini alla lettura fin dai primi anni di vita – spiega Maria, laureata in antropologia – e per riuscirci occorre superare qualche pregiudizio». Anche se le basi ci sono. La Sardegna vanta una media di ore di lettura più alta rispetto a quella nazionale e in netta controtendenza rispetto alle regioni del cosiddetto Mezzogiorno, categoria geografica in cui viene solitamente inserita, pur se i sardi spesso non ci si riconoscono. Il problema è l’economia, che in questa zona negli anni 80 e 90 è prima esplosa e poi crollata attorno alle cave di granito.
«Con l’estrazione di materiale per l’edilizia, molta gente si è arricchita. Poi è arrivato sul mercato il granito cinese, così le cave e l’indotto hanno chiuso perché le aziende multinazionali hanno cambiato fornitori». Come si vive oggi a Buddusò? «Con la crisi la gente è tornata alla terra che aveva abbandonato. Ma i giovani se ne vanno. Molti miei coetanei che hanno studiato nelle università del Nord o di Roma non tornano, e anche l’interno della Sardegna rischia di spopolarsi». Maria invece ha trovato lavoro con Liber, esperienza di cooperazione sociale che gestisce servizi culturali, nata in seno alla parrocchia e poi man mano cresciuta.
«Cercavano una persona con caratteristiche simili alle mie per avviare il progetto della biblioteca dell’infanzia. Lavoriamo con le scuole a partire dai tre anni. Le famiglie, all’inizio scettiche, vedendo che i bambini sono contenti, apprezzano. Penso che la cultura e la tutela del nostro patrimonio ambientale siano i beni su cui fondare la rinascita di questa terra». Una via da percorrere, perché la generazione di Maria non debba più andare via da casa.
Paolo Lambruschi