Automotive. I grandi marchi dell'auto divisi sulla stretta europea all'import cinese
Operai al lavoro in uno stabilimento BYD in Cina
In seguito all’indagine che dimostrerebbe come i costruttori automobilistici cinesi ricevano sussidi dal loro governo per esportare in Europa, a partire dal 7 marzo scorso i veicoli elettrici di fabbricazione cinese sono soggetti a uno speciale processo di registrazione doganale da parte della Commissione Europea.
Come era facilmente prevedibile, il provvedimento anti-dumping - premessa per l’adozione di nuove misure protezionistiche a favore dei produttori europei - ha provocato la protesta della Cina, che ha espresso «preoccupazione per l’eventuale applicazione di nuovi dazi» nei confronti dei suoi prodotti. Secondo il portavoce del ministero del Commercio di Pechino, He Yadong, «queste misure non faranno altro che aggiungere oneri al normale commercio di veicoli elettrici, ostacolare la cooperazione nel nuovo settore e danneggiare gli interessi dei consumatori europei. Le esportazioni cinesi - ha aggiunto - sono in linea con la domanda europea e non vi è alcuna cosiddetta impennata dell’import che danneggerebbe il mercato dell’Ue».
Ma lo scenario che si sta preparando, paradossalmente non è accolto di buon grado nemmeno da alcuni marchi europei, almeno quelli più legati al mercato cinese. Come Mercedes - un quinto delle azioni della quale appartengono alle case automobilistiche Geely e SAIC, controllate dal governo di Pechino - che vende in Cina circa un terzo delle sue autovetture. E Volkswagen, che piazza in quel Paese il 40% della sua produzione. Il presidente del Consiglio d’amministrazione di Mercedes-Benz Group, Ola Kallenius, ha chiesto apertamente alla Ue di desistere da queste idee protezionistiche: «Le aziende cinesi che desiderano esportare in Europa – ha detto Kallenius in un’intervista al Financial Times – rappresentano una progressione naturale della concorrenza di mercato che deve essere lasciata libera di esprimersi. Se l’Europa crede che il protezionismo ci garantisca il successo a lungo termine si sbaglia: la storia stessa ci dice che non è così».
L’ipotesi di nuovi dazi rappresenta un rischio concreto anche per gli interessi di case automobilistiche come Volvo, che utilizza la Cina come hub di produzione globale per il marchio di veicoli elettrici ad alte prestazioni Polestar. E per Bmw, che esporterà presto in Europa i modelli Mini Cooper e Aceman EV, nati da una partnership con Great Wall Motor.
La Cina è dal 2023 il più grande esportatore di automobili al mondo, avendo superato la Germania, e recentemente il Giappone. In termini di destinazione, l'Ue rappresenta il 47% delle spedizioni globali in valore del 2023, secondo un rapporto di Citi Research di gennaio. Secondo i dati della Commissione europea inoltre, tra ottobre 2023 e gennaio 2024, l’Ue ha importato 177.839 veicoli ad alimentazione elettrica da Pechino. E da ottobre 2022 a settembre 2023, il volume medio mensile delle importazioni sarebbe aumentato dell’11%.
Attualmente, i veicoli elettrici cinesi sono soggetti a un’imposta del 10% se importati in Europa. Le case automobilistiche europee pagano invece dazi tra il 15% e il 25% quando esportano le loro vetture in Cina, e questo è uno dei motivi per cui la maggior parte dei modelli tedeschi venduti in Cina sono prodotti direttamente in quel Paese. Anche Källenius ammette che è necessaria una «parità di condizioni» ma che «un maggiore protezionismo è una scelta sbagliata».
Completamente diverso è invece l’atteggiamento di Stellantis e Renault, che hanno interessi in Cina minori rispetto ai loro rivali tedeschi, con il governo francese che ha già introdotto misure contro i costruttori cinesi, applicando una politica di incentivi all’elettrico che penalizza i veicoli non costruiti in Europa. L’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, nei mesi scorsi ha più volte lanciato l’allarme sostenendo che l’industria automobilistica europea - che impiega circa 13 milioni di persone - è a rischio di essere spazzata via dalla concorrenza cinese. Che intanto si sta organizzando per aggirare l’ostacolo dei dazi, il colosso BYD in particolare che dal 2026 costruirà veicoli anche in Ungheria (e quindi in Ue) come altri marchi di Pechino, tra cui SAIC (con MG), che avvieranno presto la loro produzione nel Vecchio continente.
In quest’ottica anche il colosso Chery Automobile sta cercando siti produttivi in Europa. Secondo indiscrezioni, sarebbero in atto trattative con il governo italiano per un accordo con il nostro Paese. Con quasi 17.000 dipendenti, 1.881.000 vetture prodotte nel 2023, da anni più forte esportatore cinese di vetture passeggeri al mondo, Chery è uno dei tre Gruppi asiatici di cui ha parlato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, in questi giorni sui quali l’esecutivo sta puntando per raggiungere gli 1,3 milioni di veicoli da produrre in Italia.