Economia

Inchiesta. «I giornali? Il futuro è di qualità»

Pietro Saccò giovedì 2 luglio 2015
Un passo alla volta, Matteo Arpe si sta affermando come il nuovo che avanza tra i padroni dei giornali italiani. I primi due passi li ha fatti online. Nel 2010 insieme a un gruppo ristretto di imprenditori e giornalisti ha raccolto 5 milioni di euro per lanciare Lettera43, che oggi è uno dei più seguiti tra i siti di informazione slegati da una testata cartacea. Tre anni dopo attraverso il fondo Sator ha puntato 22 milioni di euro per entrare in Banzai, il gruppo creato da Paolo Ainio che oggi è una potenza nell’e-commerce italiano ed è l’editore di siti tematici come PianetaDonna o GialloZafferano e di siti di informazione con un certo seguito come il Post, Giornalettismo e l’aggregatore di notizie Liquida. Il terzo passo Arpe lo sta facendo sulla carta. Un anno fa ha tentato (senza riuscirci) di prendere una testata storica come l’Unità, a giugno 2015 ha annunciato l’accordo per Il Foglio. Sator e l’immobiliarista Valter Mainetti sottoscriveranno proquota un aumento di capitale da 5 milioni di euro per avere ognuno una quota del 35-40%, il fondatore Giuliano Ferrara e altri piccoli soci avranno una partecipazione di minoranza mentre gli attuali soci usciranno dall’azionariato. Allora i casi sono tre. Se uno come Arpe, cioè un banchiere cresciuto alla scuola di Enrico Cuccia in Mediobanca e diventato famoso, un decennio fa, quando da giovane amministratore delegato di Capitalia osò sfidare (e con successo) l’allora potentissimo Cesare Geronzi, investe tanti soldi in un settore economicamente malmesso come quello dell’informazione, o ha trovato il modo di guadagnare dalle notizie, o ha voglia di fare del mecenatismo oppure si sta costruendo il suo esercito di carta e bit per future battaglie finanziarie o politiche. Il terzo caso è escluso, ci garantisce Arpe ricevendoci negli uffici milanesi (ma in stile City londinese) di Sator: «Lasciamo parlare i fatti, negli ultimi anni né Lettera43 né Banzai hanno mai preso posizione sulle nostre battaglie». Anche l’idea di fare il mecenate, spendendo denaro solo per il piacere che un certo tipo di stampa esista, non gli basta. Arpe, piuttosto, è convinto che nella crisi economica del giornalismo di oggi ci siano spazi per creare valore. È un po’ come nelle banche. «Vedo molte analogie tra i problemi del settore editoriale e quelli del settore bancario: entrambi hanno avuto un certo ritardo nel fare propria la rivoluzione tecnologica, ed entrambi non riescono più a parlare con i giovani». Quella dei giovani, per Arpe, è una questione centrale, ed è una questione d’affari: «Oggi i più grandi marchi mondiali sono quelli di aziende che parlano ai giovani, come Apple, Samsung o Facebook. Un tempo non era così, trent’anni fa i grandi gruppi erano quelli del petrolio e delle banche. È una trasformazione epocale. Fra trent’anni i millennials saranno persone mature, avranno loro i soldi e non vorranno più certi prodotti e servizi. Il business di chi non è più in grado di proporsi ai giovani è destinato ad un naturale esaurimento. Oggi i giovani non entrano nelle filiali e non leggono i giornali. L’informazione e le banche, quindi, pur essendo attività molto diverse, vivono un problema analogo. Noi stiamo cercando di capire come investire nel cambiamento».  Alla base della strategia di investimento c’è la convinzione che nel mercato dell’informazione esistono due diversi modelli di business. Il primo è quello delle notizie: oggi le notizie vengono prodotte e consumate rapidamente, ricche di immagini, definitivamente gratuite. I ricavi vengono solo dalla pubblicità. La pubblicità è proporzionale alla quantità di lettori e quindi alla capacità di coprire temi molto diversi e di grande interesse. Gli ultimi dati economici rivelano che questo modello, effettivamente, può reggere alla prova dei bilanci: il Post ha chiuso il 2014 quasi in pareggio e Lettera43 dovrebbe riuscirci quest’anno (casi rari, nell’informazione online).  Non sarà questa produzione massiccia di notizie gratuite, però, a garantire il futuro del giornalismo. «Non si può non ammettere che nel settore delle notizia la quantità non sia sinonimo di qualità – ammette il banchiere –. Ad esempio gli investitori pubblicitari non amano legare i loro messaggi a notizie negative o controverse. Non solo: chi vive di soli ricavi pubblicitari non sempre può permettersi di investire sulla qualità, salvo i rari casi che non si abbia anche un immediato riscontro in termini di quantità». È qui che trova spazio il secondo modello, quello dell’informazione. «Tante più sono le notizie gratuite di cui dispongo, tanto più ho bisogno di capirle, cioè di intelleggerle e metterle in contesto. Dalla notizia si passa all’informazione, cioè la chiave di lettura delle notizie, il loro approfondimento.  Letteralmente si tratta di 'formare' la comprensione e la capacità di giudizio del lettore. È un’attività alla quale il pubblico riconoscerà sempre più un valore e che richiederà un pagamento che ne riconosce la qualità e la differenza rispetto alla semplice notizia. Un’altra differenza tra notizia e informazione è la riferibilità. È difficile sentire dire che si è letto un articolo su Google o Yahoo che pur sono tra i più grandi fornitori di notizie al mondo. Penso infine che si possa e si debba investire nell’informazione ai giovani. Mia figlia, che ha 21 anni, oggi è permanentemente connessa, riceve notizie da canali e fonti che io non conosco più. Al di là dei suoi input valoriali, che rimangono legati alla famiglia, il suo patrimonio di conoscenza, informazione e comprensione del mondo dipende da fonti che la mia generazione non conosce e soprattutto non riconosce. È questo il mercato in cui deve stare chi ambisce ad avere un futuro nell’editoria». L’investimento sul Foglio, evidentemente, appartiene a questo ambito. «È un quotidiano che fa esattamente informazione, riesce a produrre articoli che, anche letti mesi dopo, non sono invecchiati». L’operazione deve ancora essere completata. Intanto è stato definito un sistema di controllo a due passaggi, con un 'comitato di saggi' che fa da filtro tra il Consiglio di amministrazione e la redazione. Un sistema che serve a garantire l’indipendenza del quotidiano dai capitali che lo controllano. «L’infor-mazione per essere credibile deve essere indipendente. È un po’ strano chiedere al lettore di pagare per leggere notizie che qualcun altro vuole fargli leggere... ».  Certo, non è detto che i profitti arrivino subito. Su Lettera43 era stata investita una cifra importante proprio per garantire che il sito potesse andare avanti almeno tre anni libero dalla pressione di fare quadrare i conti. E ci è voluto qualche anno in più per trovare il pareggio di bilancio. «Noi non siamo dei grandi operatori, ma siamo interessati a crescere. In tutte queste iniziative e in altre che stiamo definendo come il rilancio di Pagina99 abbiamo soci che, come noi, ci credono. Non ci aspettiamo grandi ritorni, ma sarebbe sufficiente riuscire a mantenere, e magari fare crescere, quello che stiamo facendo. È un settore molto interessante, perché l’informazione – più dell’economia – è un pilastro della democrazia, che a sua volta è uno dei più importanti traguardi sociali del mondo occidentale. La democrazia richiede l’esistenza di un’informazione libera. È un elemento essenziale, impossibile che rimanga senza risorse».