Economia

Il mercato. Hi-tech, l'impatto dei tagli dei colossi Usa sul digitale italiano

Luca Mazza martedì 24 gennaio 2023

All’appello manca (per ora) solo Apple. Anche se il colosso di Cupertino, per la prima volta dopo tanti anni, nel 2023 ha il demerito di essere uscito dalla “top 100” delle aziende in cui lavorare in base alla classifica di Glassdoor, società che raccoglie recensioni anonime degli impiegati. Per il resto, negli ultimi mesi si è verificata un’ecatombe di posti di lavoro nelle Big Tech. Da Google a Spotify, da Microsoft a Twitter, passando per Amazon e Facebook, quasi tutti i giganti tecnologici statunitensi hanno scatenato un’ondata di licenziamenti per provare a far quadrare i conti, per risollevare i titoli in Borsa e per reagire al calo di investimenti pubblicitari dell’ultimo biennio.

Quale impatto possono avere questi tagli del personale sull’Europa e sull’Italia? Sicuramente migliaia di dipendenti delle società americane occupati nel nostro Paese perderanno il posto. Ma potrebbero esserci anche effetti indiretti. Del resto, il report diffuso a dicembre da Atomico sullo stato della tecnologia in Europa già evidenziava segnali di rallentamento. Confrontando la percentuale di ricerche di lavoro per posizioni tecnologiche dal 2021 al 2022 l’Italia ha registrato un calo del 6,3%. In generale, la quota di annunci di lavoro nel settore tecnologico è diminuita: si è passati dai 44.723 per un milione di annunci totali del 2020 ai 32.999 nel 2022.
La frenata del digitale in Italia viene confermata anche dai sindacati: «C’è un rallentamento in atto – spiega Giulia Guida, segretaria nazionale Slc Cgil e responsabile dell’area industria e artigianato –. Seppur in uno scenario di evoluzione delle professionalità, inoltre, in diverse filiere (dalle Tlc all’editoria) assistiamo a una produzione di contenuti digitali (dai podcast ad altre attività) che spesso le aziende “appaltano” all’esterno. Ciò avviene in molti casi con forme contrattuali “grigie”». Ecco perché Guida sottolinea la necessità che il lavoro digitale si svolga in una cornice normativa chiara: «Altrimenti rischiamo di non governare il processo di evoluzione del settore».

Il pericolo di lasciarsi travolgere dalla rivoluzione tecnologica senza dotarsi di strategie e strumenti in grado di indirizzarla viene segnalato anche da Marco Bentivogli, ex sindacalista, ora coordinatore dell’associazione “Base Italia” e autore di vari libri sul mondo del lavoro e dell’innovazione tecnologica. «Da questo boom di licenziamenti delle Big Tech ci sarà un impatto a livello globale importantissimo e l’Italia sarà toccata solo marginalmente, ma non è certo un buon segnale – sostiene Bentivogli -. Il nostro Paese, infatti, non ha ancora scommesso davvero sul digitale e sull’intelligenza artificiale, limitandosi a essere una terra di colonizzazione dei grandi “unicorni” stranieri». Il tema tecnologico, secondo Bentivogli, si intreccia con le questioni legate ai progressi dell’intelligenza artificiale. «Un esempio: ChatGPT, il sistema di algoritmi generativi sviluppato da OpenAi, sta vivendo un’esplosione, mostrando alcune capacità di sostituire una fetta di lavori che generano contenuti – spiega Bentivogli -. Bisogna fare attenzione però al fatto che questa “innovazione” non produca un esercito di lavoratori sottopagati nel Sud del mondo, come denunciato da un’inchiesta recente del Time. Servono risposte, strategie e investimenti per affrontare questo fenomeno». Per Bentivogli, tuttavia, l’Europa e l’Italia rischiano di essere tagliate fuori da queste grandi partite: «La creazione di una sovranità tecnologica europea diventa sempre più urgente e, sul piano nazionale, il ministero delle imprese e del made in Italy (l’ex Mise) dovrebbe occuparsi di impostare una strategia sull’A.I. e creare una vera dorsale italiana di generazione e trasferimento tecnologico sul modello Fraunhofer».

Per Francesco Cerruti, direttore generale di Italian Tech Alliance (l’associazione italiana del venture capital, degli investitori in innovazione e delle startup e Pmi innovative) l’ondata di licenziamenti delle Big Tech potrebbe avere anche risvolti positivi per il mercato italiano. «Va premesso che la quasi totalità dei tagli occupazionali riguarda i colossi e avviene dopo che, nel periodo pre-Covid, si è assistito a un numero di assunzioni probabilmente superiore a quanto fosse necessario per il settore – ragiona Cerruti -. Ciò è avvenuto per valutazioni basate sulla crescita presunta e per un atteggiamento da “fagocitatori” dei Big Tech paragonabile a quello del Psg nel calcio, che consiste nell’acquisire i profili migliori sul mercato a prescindere dalle esigenze della squadra». Adesso, la crisi del settore può portare a un riequilibrio su più fronti: «Alcuni profili in uscita dai Big Tech potrebbero ricollocarsi nella aree più “periferiche” del business tecnologico, compresa l’Italia, dove i grandi gruppi sono pochissimi. In generale, inoltre, potremmo ritrovarci con un mercato più umano, variegato e competitivo, con un aumento di presenze di società di dimensioni ridotte e meno dominato dai Psg del Tech».