I tempi sono maturi. Per favorire una rivoluzione copernicana nel modo in cui guardiamo all’economia: non sarà più il Pil degli "zero virgola" al centro del sistema, ma il benessere delle famiglie e delle persone. Che non tutto abbia un prezzo, per Enrico Giovannini, già presidente Istat e ministro del Lavoro, molti economisti e statistici lo hanno capito da tempo. Il passo successivo è che siano la politica e i cosiddetti
decision maker a comprenderlo. A partire dall’Europa, la quale, secondo Giovannini, ha proprio in questo momento «una straordinaria opportunità per migliorare in concreto il benessere della generazione attuale e di quelle future», compiendo una precisa scelta strategica. Gli strumenti "tecnici" sono a disposizione. E Giovannini ha contribuito in prima persona a costruirli. «L’idea – spiega – prende forma in Italia nell’ottobre del 2004, al Forum mondiale Ocse di Palermo, il primo dedicato al "Benessere", per sviluppare un percorso che portasse oltre il Pil». All’epoca Giovannini era capo statistico dell’Organizzazione. Nel 2005 partì il progetto globale per misurare i progressi delle società e due anni dopo, al secondo Forum mondiale a Istanbul, fu firmata una dichiarazione mondiale per andare oltre il Pil. «Nel settembre 2007 – continua – i consiglieri di Christine Lagarde, all’epoca ministro delle Finanze del presidente Sarkozy, mi chiamarono per un aggiornamento su questo processo e proposi la costituzione di una commissione internazionale, cosicché nel gennaio 2008 fu creata la cosiddetta Commissione "Stiglitz-Sen-Fitoussi" con l’incarico di elaborare strumenti statistici idonei a rilevare quelle dimensioni del progresso e del benessere sociale "sostenibili" che non era invece in grado di misurare l’indicatore universalmente adottato per la ricchezza delle nazioni, ovvero il Pil». Tra i 22 membri di quella commissione con cinque Nobel c’era anche Giovannini. Il Rapporto venne pubblicato nel settembre 2009 e in ottobre, al terzo Forum mondiale Ocse in Corea, l’Ocse incorporò quelle considerazioni modificando, in occasione dei suoi cinquant’anni, il proprio motto da "For a better world economy" in "Better polizie for better lives". Un cambiamento d’impostazione "strutturale" e non solo di facciata. Giovannini nell’estate del 2009 diventa presidente dell’Istat: «Il Bes, il sistema di misurazione del Benessere equo e sostenibile – spiega – è la realizzazione nel nostro Paese del lavoro internazionale iniziato undici anni fa».
Come è stata declinata concretamente in Italia l’idea di "andare oltre il Pil"?Abbiamo anzitutto interpellato la società civile. Perché non era sufficiente che alla costruzione degli indici lavorassero solo gli statistici. Attraverso il Cnel, sono state ascoltate tante associazioni di categoria e, con l’indagine Istat multiscopo, furono coinvolte 25mila famiglie. Dopo aver identificato le dimensioni principale del Bes, sono stati selezionati gli indici statistici e ogni due anni è pubblicato un rapporto, con dettagli anche territoriali. Insieme al modello inglese, il Bes è considerato oggi tra le
best practice internazionali. Recentemente sono stato chiamato dal governo tedesco per sviluppare una consultazione nazionale verso la misurazione della qualità della vita in Germania, progetto incluso nel programma della
Gross-Koalitionen per realizzare un Bes tedesco.
Sotto il profilo culturale, dell’approccio all’economia, qual è il salto che uno strumento come il Bes può aiutarci a compiere?La storia economica insegna che quando un Paese sottosviluppato comincia a crescere, quando cioè aumenta il Pil, c’è un miglioramento della salute, dell’aspettativa di vita, del livello di istruzione della popolazione. Esiste dunque una forte correlazione tra incremento del reddito e benessere. È successo anche da noi, nel secondo Dopoguerra. A quel punto c’è però il rischio di compiere un’inferenza sbagliata e sostenere, impostando le politiche economiche in tal senso, che l’aumento del Pil determini sempre e comunque un miglioramento del benessere. Subentra allora, ad aprirci gli occhi, non solo il degrado dell’ambiente, ma anche il famoso "paradosso di Easterlin" o "paradosso della felicità": in una società sviluppata la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza. Quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la soddisfazione di vita umana aumenta fino ad un certo punto, poi resta costante.
Dove sta l’errore?È un errore non considerare la distruzione ambientale che si accompagna a un aumento della crescita, ad esempio. O la dinamica della distribuzione della ricchezza che un indicatore come il Pil, anche pro-capite, non intercetta. E soprattutto: non è che ci siamo dimenticati di misurare i cosiddetti "beni relazionali"?
Che hanno molto a che fare con la felicità, evidentemente. Ma che nesso causale hanno con la crescita economica?Prendiamo come esempio il capo di una famiglia monoreddito che vive nella periferia di una grande città, una zona degradata, dove magari è pericoloso uscire la sera. Come immagina quel capo-famiglia di poter migliorare il benessere la qualità di vita propria e dei suoi cari? Il primo pensiero sarà probabilmente quello di spostandosi da un’altra parte. Ma per farlo magari deve lavorare di più, sacrificando il tempo dedicato alla sua famiglia. Oppure sceglierà di lavorare di più per fare delle vacanze che compensino in qualche modo la vita dura di ogni giorno. O si comprerà un
home theatre e si chiuderà in casa. Lavorerà di più e spenderà di più, facendo salire i consumi e quindi il Pil, ma il suo benessere non cambierà. È questo il punto: il Prodotto interno lordo non esprime, da solo, il benessere. Per questo dobbiamo guardare oltre.
Proviamo a tradurre questa visione in un approccio di politica economica. Dove posare anzitutto lo sguardo?Se il reddito delle famiglie è quello che conta, allora cominciamo da lì. Incrociando la curva del Pil e quella dei redditi delle famiglie si osserva, ad esempio, che nel corso degli ultimi anni il reddito nell’Eurozona è caduto meno del Pil nella fase acuta della crisi, ma poi è sceso anche nella fase in cui quando il Pil ha ripreso a salire. D’altra parte, sappiamo che il benessere dipende anche, come abbiamo spiegato presentando il Bes, anche il sorriso di chi ci circonda, la solitudine, l’ansia di non avere un lavoro, l’aria che respiriamo, la biodiversità. Quindi la politica economica deve essere integrata con quella sociale e ambientale.
Come continuare il percorso per rendere le maglie del Bes ancora più fini e capaci di intercettare la complessità della realtà economica e sociale in un visione che metta al centro l’uomo, la famiglia e il benessere?Il Bes ha una componente territoriale da sviluppare, l’UrBes, per portare dentro le città il Bes, che ora arriva solo a livello regionale e provinciale. Quindici grandi città hanno già aderito al progetto UrBes per rendere disponibili gli indicatori Bes a livello locale. La legge sulle Smart cities del 2012 ha tracciato il percorso: l’obiettivo è dunque a arrivare a livello comunale, con un censimento continuo, come fanno negli Stati Uniti, che dovrebbe partire nel 2016.
Nel presentare il primo lavoro sul Benessere equo e solidale in Italia, nel 2013, ha definito il Bes uno strumento per la politica. «La misura del benessere – le sue parole – non è un giochino, indica quale sarà il tipo di società che vogliamo costruire. È un tema di politica con la P maiuscola».Lo può diventare, dovrebbe diventarlo. Il Bes può orientare meglio le scelte della politica, promuovere un modello di sviluppo diverso con al centro la persona e non i prodotti. Quando abbiamo presentato il primo Rapporto, l’auspicio era che le relazioni tecniche di accompagnamento alle nuove leggi descrivessero l’effetto atteso sulle diverse dimensioni del benessere e non solo sulle variabili finanziarie. Ebbene: quest’anno il Tesoro ha inserito il Bes nel Documento di economia e finanza (Def), proponendo di usarlo per valutare le politiche. È certo un primo passo.
Il secondo?Immagini se si fosse valutato l’impatto del "bonus 80 euro", una misura quantitativamente rilevante per i conti pubblici, vale 10 miliardi, sul Bes e non solo su consumi e crescita attesi. Si sarebbe fatta una scelta diversa, per esempio creando uno strumento per combattere la povertà? Il Regno Unito sta lavorando in questa direzione, con analisi costi-benefici basate sul benessere. Anche l’Ocse lavora in questa direzione. In Italia dovremmo fare altrettanto.
Con quali strumenti legislativi?La riforma costituzionale prevede tra i compiti del nuovo Senato proprio quello di fare questo tipo di analisi costi-benefici e dovrebbero essere fatte guardando al Bes. Anche se – osserva Giovannini con un certo rammarico – in un Paese senza centri di ricerca pubblici orientati in questa direzione, come ci sono in Francia o in Germania, l’avvio del lavoro sarà più complicato. Ma è bene sottolineare come queste ricerche non siano un lusso: sono lo strumento di una rivoluzione culturale a cui non possiamo più rinunciare.
A poco servirà, in ogni caso, se poi la Commissione europea ci fa continuamente le pulci sullo 0,25% o lo 0,50% del deficit strutturale come parametro dirimente…Anche l’Europa ha oggi una straordinaria opportunità di andare oltre il Pil nella sua agenda politica. E scegliere di creare le condizioni perché a migliorare sia la qualità della vita dei cittadini europei. La nuova Commissione (martedì scorso Giovannini era a Bruxelles per tenere un seminario sul Bes,
ndr) sta rivedendo in questi mesi il sistema di valutazione d’impatto della legislazione. E aggiornando la "Strategia 2020" (l’Unione si è posta cinque ambiziosi obiettivi in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia da raggiungere entro il 2020. Ogni Stato membro ha adottato per ciascuno di questi settori i propri obiettivi nazionali. Interventi concreti a livello europeo e nazionale vanno a consolidare la strategia,
ndr). Questa coincidenza rappresenta dunque un’occasione irripetibile per inserire uno strumento come il Bes e mettere tutto insieme, passando dal mantra "Crescita intelligente, sostenibile e inclusiva" a "Benessere equo e sostenibile". Sarebbe un cambiamento di paradigma fondamentale.