Economia

REPORTAGE. GM ritorna in Borsa. «Gli operai hanno pagato il prezzo più alto»

Elena Molinari venerdì 19 novembre 2010
Una barzelletta circola a Jefferson North, la fabbrica della Chrysler appena fuori Detroit. Due neoassunti muoiono in un incendio e i giornali il giorno dopo titolano: perso un operaio dell’auto. «Con due di noi ne fai uno di quelli vecchi», spiega ridendo Chris Carlton fuori dallo stabilimento. Poi si fa più serio. «Parti a 14 dollari l’ora. E lavori a fianco di operai che guadagnano il doppio. Non ci metti molto a sentirti di serie B».L’impianto produce le nuove Jeep Grand Cherokee, il primo importante modello che la Chrysler ha introdotto da quando la Fiat ne ha assunto il controllo. «Mi piacerebbe comprarne una – continua il ventiduenne Carlton –. Ma è un sogno così irraggiungibile che preferisco non pensarci». La Grand Cherokee sarà in vendita il prossimo anno a partire da trentamila dollari, e ha già ricevuto recensioni entusiastiche. La Chrysler, che ha assunto 1.100 lavoratori per costruirla, ha appeso alla Jeep e alla Fiat 500 appena presentata a Los Angeles le sue speranze di ripresa dalla bancarotta di un anno e mezzo fa. Dopo che General Motors e Ford sono tornate a fare profitti, infatti, Chrysler è rimasta l’unica delle tre sorelle di Detroit in rosso. Per questo nei suoi stabilimenti, più che in quelli della Gm, che ieri ha lanciato un’Ipo definita da Barack Obama «una pietra miliare per l’industria automobilistica americana», si colgono le contraddizioni del dopo-recessione – visto dalla catena di montaggio.Se a salvare le società di Detroit dal precipizio ci pensò infatti l’amministrazione Obama con investimenti per oltre 60 miliardi di dollari, sono i lavoratori ad aver pagato il prezzo più salato per la rinascita della loro industria. Per gli operai più vecchi il sacrificio è arrivato nella forma di una rinuncia all’assicurazione sanitaria dopo la pensione. I nuovi assunti invece sono inquadrati a condizioni completamente nuove, negoziate dai sindacati fra il 2007 e il 2009: 14 dollari lordi l’ora dai quali va tolta, oltre alle tasse, una quota mensile per un’assicurazione sanitaria che copre solo metà delle spese mediche oltre i 3500 dollari. Non c’è pensione d’anzianità, ma solo basata sui versamenti dai lavoratori, con un minimo contributo dell’azienda. A questo si aggiunga il divieto di scioperare fino al 2015, l’annullamento degli aumenti di contingenza, e limiti agli straordinari.Eppure al North Jefferson si respira il sollievo di esserci ancora e di poter lavorare, e non manca l’orgoglio di aver tenuto a galla non solo un’azienda, ma un’intera città.Jared Onion, ad esempio, che ha 24 anni, prende 15 dollari all’ora, mentre suo fratello maggiore Derek ne guadagna 28. Ma è grato di avere un lavoro sicuro e di non cuocere hamburger per 7 dollari l’ora. «Non siamo lontani da Flint, dove migliaia di persone sono state licenziate – dice – noi invece possiamo guardare al futuro con fiducia».Dall’inizio dell’anno l’industria dell’auto ha ripreso a bordo, fra vecchi e nuovi addetti, 15mila persone. E proprio ieri un centro di ricerca Non profit ha confermato che la ripresa del settore ha già salvato più di un milione e 400mila impieghi, soprattutto in Michigan, Ohio ed Indiana.«L’area metropolitana di Detroit ha perso lavoro ogni anno dal 2000 al 2009: più di 230mila in tutto. La disoccupazione è sopra il 16%. Anche solo arrivare al punto in cui l’emorragia si ferma è un grande miglioramento», dice Don Grimes, studioso di occupazione all’Università del Michigan. Per Detroit è stata una questione di sopravvivenza. «Un anno e mezzo fa non sapevamo se avremmo ancora avuto una fabbrica – spiega Cynthia Holland, delegata sindacale della United auto workers (Uaw) allo stabilimento di Jefferson north – ora abbiamo l’opportunità di mostrare al mondo che siamo lavoratori di prima classe. Anche se sappiamo tutti che la fabbrica non ti dà più le sicurezza di una volta, come comprare casa, avere un’auto, mandare i figli all’università».Aver tolto ai suoi iscritti il diritto di far parte del ceto medio in cambio di una speranza di ripresa è stato definito il «grande patto» che il sindacato si è trovato costretto a stringere con la proprietà. «Una nuova fase storica», come la chiama Harley Shaiken, docente di relazioni sindacali all’Università di Berkeley, che l’Uaw ha abbracciato ma che deve ancora imparare a gestire. Soprattutto dove la collaborazione ha raggiunto proporzioni senza precedenti, come alla GM. Qui l’Uaw si è fatta carico dell’assicurazione sanitaria di 400mila pensionati e delle loro famiglie istituendo un fondo che dovrà gestire spese e benefici medici. In cambio ha ricevuto il 55% del capitale aziendale, intrecciando in modo inestricabile le sue sorti a quelle dell’azienda.Ma il patto verrà presto messo alla prova. Il prossimo anno scadono i contratti siglati nel 2007, e il sindacato intende spartire con le società dell’auto i loro profitti. L’atmosfera per ora è collaborativa, per lo meno agli alti livelli. Bob King, il presidente dell’Uaw, ha già detto che «il sindacato vuole che i lavoratori ricevano la loro parte, ma in un modo da non compromettere la competitività dell’industria».I buoni sentimenti sono però meno facili da trovare in fabbrica, soprattutto alla Chrysler, dove non ci sono ancora profitti da dividersi e dove la strada per migliorare le condizioni di lavoro sembra ancora in salita. «Il sindacato ci ha convinti che far tornare l’azienda in attivo varrà i sacrifici che abbiamo fatto – commenta Chris, l’operaio della barzelletta macabra –. Sappiamo che non ci può far ottenere le condizioni dei lavoratori tradizionali, ma quando arriverà anche a noi una fetta della torta? O dobbiamo rassegnarci a essere dipendenti a metà?». Per lui accontentarsi è ancora più difficile da quando ha scoperto che suo padre venne assunto dalla General Motors nel 1964 con uno stipendio di 13.69 dollari all’ora. «Quasi cinquant’anni dopo, prendo solo 30 centesimi in più. Non è surreale?».