«Non è un cantiere titanico. Grazie a ricercatori da tempo sul piede di guerra, disponiamo di tanti lavori scientifici seri. Adesso, mancano le risorse a disposizione degli istituti nazionali di statistica. Ma resto convinto che entro un decennio potremo disporre di una serie di nuovi indicatori condivisi di ricchezza per condurre politiche migliori». Parola di Jean-Paul Fitoussi, il noto economista francese, docente anche alla Luiss di Roma, da tempo in prima linea nella riflessione per "andare al di là del solo Pil". Fra il 2008 e il 2009, aveva pilotato con i nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen la "Commissione sulla misura della performance economica e del progresso sociale" voluta dall’allora presidente Nicolas Sarkozy. E adesso, prosegue quella riflessione sotto l’egida dell’Ocse, coordinando un gruppo di lavoro indipendente internazionale accanto a Stiglitz e a Martine Durand, direttrice della statistica per l’Ocse.
L’Assemblée nationale, camera bassa del Parlamento francese, ha appena adottato una proposta dei Verdi per tener conto di nuovi indicatori di ricchezza nelle politiche pubbliche. Che ne pensa?Sono stato ascoltato dalla commissione parlamentare che ha proposto il testo. È un passo in avanti importante, perché il governo dovrà impegnarsi su delle cifre che riflettono il benessere e l’impatto ambientale. Queste dimensioni non potranno più essere dimenticate.
Sono passati 5 anni dalla "Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi". Si sta davvero avanzando?«Senz’altro. E adesso, all’Ocse, approfondiamo quel lavoro soprattutto per proporre a tutti gli istituti nazionali di statistica dei protocolli comuni, in modo da poter confrontare i dati statistici di ciascun Paese.
Perché l’Ocse?Il segretario generale Angel Gurria si era appassionato al nostro lavoro. E fin dall’inizio, pensavamo che solo un’organizzazione internazionale potesse permetterci di raggiungere tutti gli istituti nazionali di statistica. L’Ocse ci sostiene e fornisce i propri dati. Ma lo scopo è di occuparsi di tutti i Paesi, non solo di quelli membri dell’Ocse. Consegneremo un primo rapporto nel 2017 e avvertiamo un interesse crescente di molti governi che cercano di approntare sistemi di misura del benessere, come l’Italia.
Quali fattori frenano maggiormente la fine del monopolio del Pil?Ci troviamo in una situazione finanziaria particolare in cui mi sembra che tutti i governi stiano comprendendo l’utilità di avere altri indicatori per elaborare le proprie politiche. Al contempo, proprio a causa dell’austerity, il vero freno è la riduzione delle risorse dedicate a questo cantiere e agli istituti nazionali di statistica. Occorrono più risorse, anche se l’obiettivo non è di abbandonare il Pil.
Resterà un indicatore chiave?Resterà fondamentale soprattutto per le sue conseguenze sull’occupazione. Ma occorre migliorare il suo calcolo e affiancarlo con indicatori di benessere e sostenibilità.
Intravede un gruppo di Paesi pionieri?Diversi Paesi hanno già creato a livello nazionale gruppi di lavoro ad hoc, come Gran Bretagna, Canada, Cina. E naturalmente l’Italia, con l’importante riflessione guidata da Enrico Giovannini. Adesso, il problema centrale è rendere omogenei gli indicatori di benessere finora elaborati. Non servirebbe a nulla restare con indicatori diversi per ciascun Paese.
Qual è il nocciolo dell’argomentazione a favore di un superamento del Pil?Il nodo teorico fondamentale è quello della sostenibilità, secondo il quale ogni generazione dovrebbe consegnare alla seguente una quantità di capitale almeno equivalente a quello di cui ha beneficiato. Ma in realtà, non sappiamo ancora misurare bene il capitale in senso lato. Questo comprende il capitale economico, privato e pubblico, quest’ultimo già problematico da misurare. E ancor più lo è misurare il capitale umano, quello sociale e quello ambientale. Partendo da una teoria della sostenibilità, dobbiamo misurare meglio queste diverse componenti del capitale per poter dire se viviamo in situazioni sostenibili.
Ciò significa che è difficile dire oggi se il sistema economico è davvero in crescita?La crescita è un concetto che si applica ai redditi. Ma certe politiche economiche possono condurre alla crescita, distruggendo al contempo il capitale. Quello naturale, com’è ormai evidente, ma pure il capitale umano e sociale. L’austerity che provoca picchi di disoccupazione sta distruggendo capitale umano e sociale. E si pensi al fattore dell’instabilità legata alla cosiddetta flessibilità dei lavoratori. Non li abbiamo considerati semplicemente perché non li misuravamo. Ma se dicessimo ai governi che per un punto in più di Pil occorre distruggerne 10 di capitale umano e sociale, forse si condurrebbero politiche diverse. In fondo, lo scopo della svolta è di giungere a migliori politiche pubbliche, economiche e sociali. Tanti governi hanno già capito di aver perduto le elezioni per non aver preso in considerazione fattori come le disuguaglianze.
Nell’applicazione, su quale scala di grandezza occorre puntare?Occorrerebbe puntare su quella mondiale, perché tanti beni pubblici non si fermano di certo alle frontiere degli Stati o dei continenti. Sono essenzialmente mondiali, come l’ambiente. Ma trovare un accordo già in Europa sarebbe un passo enorme. Non abbiamo ragioni per privarci del ruolo di precursori.