Lavoro. Nuove regole per i call center, freno alle delocalizzazioni
Mettere un freno alla delocalizzazione, inasprire le sanzioni per chi non rispetta le regole e tutelare i lavoratori. Ma anche migliorare il servizio per gli utenti. È stato firmato a palazzo Chigi il "protocollo di autoregolamentazione sulle attività di call center" che 13 grandi società committenti che insieme rappresentano circa il 65% del mercato di riferimento hanno deciso di adottare (Eni, Enel, Sky, Intesa Sanpaolo, Tim, Fastweb, Poste italiane, Trenitalia, Ntv, Wind Tre, Unicredit, Vodafone e Mediaset). Il protocollo ha come obiettivo riqualificare il settore, duramente provato dalla crisi e soprattutto fermare le delocalizzazioni "selvagge" verso i paesi extra Ue dove il costo del lavoro è assai più basso. Il tutto con l'obiettivo di tutelare maggiormente i lavoratori, circa 80mila, molti dei quali non sono più giovanissimi alle prime esperienze ma lavoratori "strutturali" (l'età media è di 35 anni) con poche chance di ricollocamento.
L'intesa prevede, sul fronte della delocalizzazione, che almeno l'80% dei volumi in outsourcing (vale a dire affidati a società esterne) venga effettuato sul territorio italiano e che il 95% delle attività in via diretta sia realizzato in Italia entro sei mesi dalla stipula. Il protocollo ha una durata di 18 mesi con rinnovo tacito e verifica dei risultati dopo 12 mesi da parte di una cabina di regia composta da imprese, sindacati e ministero. Verrà creato una sorta di "bollino blu" che testimoni il livello delle "buone pratiche" che sia di riferimento per l'intero settore. Viene introdotto l'obbligo di comunicazione della delocalizzazione del call center entro 30 giorni e un inasprimento delle multe per chi non rispetta le regole. Inoltre verranno escluse dalle gare quelle società che fanno offerte al ribasso non rispettando i parametri di costo del lavoro orario minimi. Sul piano della qualità del servizio si prevede che siano assicurate: chiarezza, semplicità di fruizione e correttezza delle informazioni fornite (con l'obbligo di dichiarare da dove chiama e da dove risponde l'operatore) e una certificazione linguistica B2 per gli operatori fuori dal territorio nazionale.
Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, presente alla firma insieme al ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha salutato la firma del protocollo come un segnale che "fa bene al Paese e lancia un messaggio di tutela del lavoro e di protezione sociale, di responsabilità sociale delle imprese, in questo momento di particolare rilievo".
Gentiloni ha sottolineato la tipicità di un settore "spesso rappresentato, anche giustamente, in libri e film, dominato da precarietà e condizioni di lavoro difficili" ma anche "di un settore con un'altissima intensità di lavoro, con un particolare rapporto di investimento, ma anche che siamo davanti a un'evoluzione del settore difficile oggi da definire compiutamente". Ecco perché per il premier l'accordo siglato oggi "andrà monitorato, ma intanto abbiamo gettato un'ancora di protezione sociale, un valore da rivendicare anche per il governo - rimarca - proprio nel momento in cui, insieme ad altri, è uno dei paladini della società aperta". E dunque "chi si batte in prima linea sulla frontiera deve essere capace di rivendicare politiche di protezione e tutela".
"È il primo caso in Europa" di un protocollo del genere ha sottolineato il ministro Calenda," lo facciamo non perché siamo contro il libero mercato ma perché ci sono settori più esposti e senza difesa". Calenda ha spiegato che nei primi quattro mesi del 2017 sono quadruplicate nei primi quattro le sanzioni contestate dal ministero dello Sviluppo economico nei confronti dei fornitori dei servizi di call center e dei committenti in caso di omessa o mancata comunicazione in seguito a delocalizzazione e per gare al sottocosto nella pubblica amministrazione. Nei primi quattro mesi dell'anno sono state comminate 120 sanzioni per un importo intorno ai 2 milioni di euro contro le 34 contestate nel 2016 per circa 100mila euro.
Soddisfazione anche da parte dei sindacati. Di "passo avanti fondamentale" e "segnale positivo per tutelare i lavoratori" parla la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan. "È di grande importanza che 13 grandi soggetti industriali del Paese, abbiano deciso di stabilire una sorta di codice comportamentale per ridurre fortemente gli effetti negativi delle delocalizzazioni e per rispettare una serie di norme per la tutela dell'occupazione italiana. Di grande importanza è anche la cabina di regia che ci
vedrà protagonisti con le imprese su questo aspetto".
In generale, sull'intero territorio italiano gli impiegati nei call-center sono 80mila, collocati soprattutto nel Mezzogiorno, con Calabria e Puglia in testa. Secondo l'Istat non si tratta più di un popolo che si accontentava di un lavoro precario in attesa di trovare di meglio: oggi l'età media è più elevata, intorno ai 35 anni, i titoli di studio sono superiori e si tende a restare e impiegati più. Nel 2003 il comparto contava circa 12.800 addetti, mentre nel 2006, soprattutto per effetto dei processi di stabilizzazione del personale esterno, si toccarono le 51.000 fino al traguardo degli 80 mila attuali. Tuttavia da tempo le aziende denunciano distorsioni del mercato che hanno portato a un grave squilibrio concorrenziale e a esuberi (il caso più recente quello di Almaviva) gestiti di frequente con gli ammortizzatori sociali, soprattutto contratti di solidarietà. Ma, soprattutto, la tendenza all'abbattimento dei costi ha portato a una delocalizzazione sempre più massiccia in Romania, Croazia, Bulgaria, Albania e Tunisia. E il fenomeno, che sinora non era regolamentata coinvolge circa 15mila lavoratori, soprattutto in Albania e Romania. A ciò si aggiungono altri fattori di crisi come la proliferazione delle gare al massimo ribasso (adesso escluse) e l'incremento del costo del lavoro.