Auto. Fca, addio al diesel? Costi e rischi di una scelta forte
Il quartier generale di Fca a Auburn Hills, Michigan, USA
La svolta è annunciata, anche se le conseguenze potrebbero essere molto impegnative in un quadro relativo alle emissioni già estremamente delicato. Secondo il Financial Times, il Gruppo Fiat Chrysler Automobiles avrebbe intenzione di non produrre più motori diesel per le proprie vetture a partire dal 2022, lasciandoli come opzione solamente per i veicoli commerciali. Fca ufficialmente non conferma, ma è probabile, come sostiene il quotidiano finanziario della City, che la decisione possa essere annunciata da Sergio Marchionne il primo giugno prossimo, in occasione della presentazione del nuovo piano industriale.
Evidenti le ragioni alla base della possibile svolta, collegata allo scandalo dieselgate della Volkswagen. La domanda per motorizzazioni a gasolio sta subendo un calo in tutta Europa (-8% le vendite nel 2017 secondo i dati di Jato Dynamics) con la sola eccezione dell’Italia, dove la flessione è stata contenuta in un solo pun- to percentuale e che con il 56,7% resta l’unico mercato di rilievo dove il diesel conserva la maggioranza. Ma l’opposizione politica ai motori a gasolio è ormai chiara, come i piani di grandi città per vietarli. Parigi, Madrid e Atene hanno già annunciato la messa al bando dal 2025, ma ci sono Paesi come la Norvegia che per quella data intendono vietare tutti i motori a combustione. Oltre ai problemi di inquinamento si aggiungono i costi crescenti per adeguare la tecnologia ai sempre più stringenti requisiti sulle emissioni imposti dalle autorità europee.
L’annuncio di Fca rimanderebbe al 2022 l’addio a queste motorizzazioni che Toyota ha già attuato da gennaio sul mercato italiano, mentre anche per Peugeot e Volvo sembra solo una questione di tempo. Per Fiat-Chrysler non si tratterebbe ovviamente di una scelta indolore, sia per la sua leadership ultradecennale nel segmento, in particolare nelle basse cilindrate, sia per il peso del gasolio sulle sue vendite: oggi sono equipaggiate con motori diesel il 40,6% delle vetture vendute dal Gruppo in Europa, una percentuale addirittura in leggera crescita rispetto al 40,4% del 2016. La notizia ha destato la preoccupazione dei sindacati. Sono due infatti gli stabilimenti Fca in Italia dedicati alle motorizzazioni diesel, Fca Vm Motori e Fca Pratola Serra (Avellino), che complessivamente occupano circa 3.000 lavoratori.
Le incognite su questa scelta, soprattutto se effettuata in un arco temporale così ridotto, sono dunque diverse. Anche perché i motori diesel – più inquinanti degli altri relativamente a NOx e PM10 – se si prende in considerazione la sola CO2, producono emissioni inferiori di circa il 10-15% di quelli a benzina. Un dato di importanza essenziale per i costruttori, che senza gasolio si troverebbero nella probabile impossibilità di rispettare i limiti di CO2 imposti dall’Europa, specie quelli ancora più bassi (95 grammi al km sulla media della loro gamma) che entreranno in vigore nel 2021.
Secondo una recente ricerca effettuata da P.A Consulting, solo quattro Gruppi (Volvo, Toyota, Renault-Nissan e Jaguar-Land Rover) sarebbero in grado di rientrare in questi limiti. La situazione più preoccupante sarebbe proprio quella di Fca, che rischia uno “sforamento” medio della flotta pari a 10,1 g/km che corrisponderebbe ad una multa pari a 1,3 miliardi di euro. Ma anche Ford, Daimler, Volkswagen, BMW, Huyndai, Kia e il Gruppo PSA-Opel andrebbero incontro a sanzioni molto onerose. Fiat ha dalla sua una forte potenzialità sui propulsori a gas, fiore all’occhiello della produzione interna, sui quali potrebbe virare ancora più decisamente, mentre sembra molto più problematica l’alternativa elettrica, in generale per la inconsistente marginalità del mercato che rappresenta e in particolare per il ritardo e la scarsa convinzione con cui il Gruppo italo-statunitense ha investito in questo segmento.