L'analisi. Europa cara, l'automobile delocalizza le medie
Chi comprerà più la Panda se il ceto medio finisce?». Il mercato, almeno il nostro, sta rispondendo alla domanda che si era posto qualche tempo fa Sergio Marchionne, scomparso lo scorso 25 luglio: il ceto medio cioè non è ancora finito e gli italiani continuano ad acquistare la Panda, che nei primi 7 mesi dell’anno si conferma l’auto più venduta in assoluto. L’evoluzione della domanda dell’ex ad di Fca semmai potrebbe essere questa: dove andranno i costruttori a produrre le utilitarie nel prossimo futuro, alla luce di un mercato incompatibile per quel tipo di vetture con il costo del lavoro in Europa, e in un’economia sempre più globalizzata?
Riguardo alla Panda, l’accordo firmato un mese fa tra Fiat-Chrysler e sindacati prevede che la sua vita italiana resti nello stabilimento di Pomigliano fino al 2022, prorogando così lo spostamento della produzione in Polonia, ma la delocalizzazione in atto da parte di tutti i costruttori è ormai un dato consolidato. Le cifre dell’Oica, l’organizzazione dei produttori di auto, fotografano senza dubbi lo spostamento del cuore del sistema automotive soprattutto verso l’Asia. La maggioranza degli investimenti – sottolineano gli analisti – è naturalmente concentrata nei Paesi emergenti: l’elemento nuovo degli ultimi dieci anni è che oggi anche i marchi europei di qualità realizzano le vetture in Asia, con standard propri della casa madre e con l’obiettivo di venderle alla media borghesia che là si sta affermando.
È in quest’ottica la decisione del Gruppo Volkswagen che entro il 2020 abbandonerà la produzione in Europa centrale sfruttando le proprie capacità industriali in Brasile, per assemblare là una nuova city-car che sostituirà l’attuale generazione della Up!, e delle “gemelle” Seat Mii e Skoda Citigo. Sulla stessa architettura verrà costruita in Brasile anche e una nuova versione dell’attuale Volkswagen Fox. Intanto, sulla scia dei successi commerciali ottenuti nel Sudamerica da Jeep Renegade, Jeep Compass e Fiat Toro, anche Fca si prepara a portare al massimo livello la capacità produttiva del suo impianto brasiliano di Goiana, nello stato del Pernambuco, dove assembla 250 mila veicoli all’anno nel moderno stabilimento da cui escono, appunto, i due Suv e il pick-up del Gruppo.
“Auto piccole, margini piccoli”, è lo slogan che da sempre accompagna questo segmento che ora non ha solo Brasile, insieme a Russia, India e Cina, nelle sue mire. Oltre l’orizzonte dei Brics si apre quello dei “Future 15” ovvero di quel gruppo di mercati emergenti che hanno già iniziato a trainare l’industria globale, grazie soprattutto al costo della manodopera più basso. Tra questi, non solo Paesi lontani come l’Indonesia, la Thailandia o la Malesia ma anche più vicini a noi come la Turchia, il Marocco, l’Egitto, l’Algeria o, in Europa, la Serbia o la Spagna. Ed è in questi siti industriali che Francia, Germania ed Italia hanno già da tempo delocalizzato la produzione delle auto low-cost o comunque di fascia media. La Slovenia, dove vengono assemblate parte delle Renault Clio e il 56% delle Kia destinate all’Europa, è diventata il polo trainante di questo settore, mentre la Slovacchia resta il sito produttivo della Citroen C3, una delle regine di questa fascia di mercato.
Il Marocco con gli stabilimenti di Tangeri e Casablanca resta invece con 400mila vetture l’anno il grande hub estero produttivo del Gruppo Renault per rifornire il Mediterraneo, Asia e Americhe. In questa zona franca non c’è traccia di tasse d’esportazione e un operaio Renault a Tangeri percepisce in media 300 euro mensili. Comparati ai 2.200 lordi che ne costa uno in Francia (con 10 anni d’anzianità), ma anche con i 700 di quello di un’analoga fabbrica in Romania, non è difficile capire perché la casa automobilistica francese abbia scelto di delocalizzare qui.