Crisi energetica. Ma l'Italia potrebbe fare a meno del petrolio russo?
In teoria l’Italia potrebbe anche fare a meno del petrolio russo. Siamo abituati a comprare dalla Russia circa il 10% del greggio che consumiamo, 5,1 milioni di tonnellate di petrolio nei primi undici mesi del 2021, secondo gli ultimi dati dell’Unione energie per la mobilità. Nel 2010, quando le sanzioni colpirono il petrolio dell’Iran, che per l’Italia era un fornitore più importante di quanto lo sia la Russia oggi, il sistema riuscì ad adattarsi, sostituendo il greggio iraniano con quello di altri Paesi. Certo, è complicato. Ad esempio non si può ignorare che la seconda maggiore raffineria del nostro Paese, quella di Priolo Gargallo, vicino a Siracusa, è di proprietà di Lukoil, primo gruppo petrolifero privato russo che ha come principale azionista l’oligarca Vagit Alekperov.
Ma il problema non è l’Italia, quanto l’Europa e più in generale l’Occidente. «Mi chiede se ci sono alternative al petrolio russo, nel caso che l’Occidente rinunci ad acquistarlo? No, non ce ne sono» risponde con chiarezza Alberto Clò, economista direttore responsabile della rivista Energia, fondata nel 1980 con Romano Prodi.
Attualmente la Russia produce circa 11 milioni di barili di petrolio al giorno e ne esporta 5 milioni, a cui si aggiungono altri 3 milioni di barili di prodotti raffinati, soprattutto gasolio. Circa il 60% delle esportazioni di petrolio russo va in Europa. Se quei 5 milioni di barili escono dal mercato internazionale, o se l’Europa smette di comprarli, sul mercato può avvenire un delicato ribilanciamento, con un aumento degli acquisti di petrolio russo da parte della Cina o dell’India. Quello che è certo è che il mercato del petrolio non può fare a meno delle esportazioni della Russia: il consumo globale, in ripresa, è diretto verso i 100,8 milioni di barili al giorno. Circa sette barili su dieci sono importati dai Paesi che li consumano.
«Prima ancora della guerra vedevamo una rapida salita delle quotazioni. I prezzi salivano perché la domanda si è ripresa dopo la pandemia e la capacità produttiva disponibile si è esaurita – spiega Clò –. È successo perché da una decina di anni sono crollati gli investimenti nell’attività di upstream. Se non cerchi petrolio non lo scopri e non lo estrai. In questi anni le imprese hanno avuto ritrosia a investire perché abbiamo insistito a dire che occorre accelerare la transizione energetica, che dobbiamo affidarci all’energia del sole e del vento. Quando poi emergono problemi, come oggi, questa narrazione si rivela scriteriata».
Anche le grandi potenze esportatrici, a partire dall’Arabia Saudita, oggi hanno una ridotta 'spare capacity', come si definisce la differenza tra il greggio estratto e quello che si potrebbe estrarre. Le ultime analisi di JPMorgan, per esempio, parlano di una 'spare capacity' dell’Opec ridotta al 4%, che equivarebbe più o meno un milione di barili al giorno. Difatti alcuni osservatori notano che l’Opec non sta riuscendo a tenere fede all’impegno di aumentare la produzione ogni mese di 400mila barili al giorno per recuperare i tagli di produzione decisi all’inizio della pandemia. Gli aumenti sono sempre inferiori a quanto promesso non per malizia, ma perché tecnicamente molti Paesi esportatori non riescono a onorarli. Gli investitori questo lo sanno. Si spiega così l’impennata delle quotazioni internazionali del Brent e del Wti: sui mercati si sta già scontando l’idea che Stati Uniti ed Europa rinuncino a comprare il petrolio dei russi. Gli Stati Uniti martedì 8 marzo lo hanno deciso ufficialmente. L’Europa al momento non vuole farlo, perché non può permetterselo. Sul mercato però le compagnie si muovono con cautela.
L’Urals, il petrolio russo, viene venduto con lo sconto per trovare acquirenti. Shell dopo essere finita nella bufera venerdì scorso per avere comprato un carico di 750mila barili di Urals a 28 dollari al barile sotto la quotazione del Brent (uno sconto che vale 20 milioni di dollari), martedì ha annunciato che d’ora in avanti non comprerà più il greggio di Mosca. Le aziende italiane non hanno fatto comunicazioni ufficiali. Tra i gruppi principali, Saras - che controlla la prima raffineria del Paese, quella di Sarroch - è abituata a lavorare una quota residuale di greggio proveniente dalla Russia. Eni al momento non sta raffinando petrolio russo, in ogni caso si attiene a quanto previsto dai governi sulle sanzioni. «Qualcuno lo starà naturalmente comprando anche in Italia. A quanto io sappia, i vecchi contratti sono ancora onorati. Come per il gas: nonostante le tante cose che si dicono, le forniture dalla Russia stanno andando avanti normalmente, anche quelle che transitano sotto l’Ucraina – conclude Clò –. C’è un problema di scorte, ma non è colpa di Putin. E non dimentichiamo che molti dei centri di stoccaggio in Europa, in particolare in Germania, sono di proprietà di Gazprom. Non è una situazione semplice».