Economia

Servizi per l'impiego europei. Disoccupazione: lo spettro della lunga durata

Paola Simonetti martedì 14 dicembre 2010
Il pantano della crisi ristagna. In Europa i segnali di ripresa sono ancora troppo timidi per incidere sul quadro generale delle economie. Si fatica dunque ad essere ottimisti guardando ai prossimi due anni soprattutto in tema di occupazione. Uno degli anelli più deboli della grande catena economica che si aggancia a doppio filo a produttività e capacità competitiva delle aziende, ma soprattutto alla lungimiranza delle politiche di governo degli Stati membri. Le sfide da affrontare contro la disoccupazione sono molteplici, concatenate, non facili in un periodo di pesante austerity. Una riflessione corale, ricca anche di proposte, l’hanno messa in campo a Roma due giorni fa dietro sollecitazione di Italia Lavoro, gli operatori europei di settore sul fronte sociale, istituzionale e imprenditoriale. Sullo sfondo degli obiettivi di Europa 2020, che prevedono fra l’altro piani nazionali di riforma (PNR) degli Stati con azioni concrete e monitorate per far fronte ai «colli di bottiglia» dei sistemi economico-occupazionali, il dibattito si è dipanato da un dato che impensierisce: l’aumento della disoccupazione di lungo periodo. Nel 2010, stando ai dati di Stefano Scarpetta, vice direttore Ocse, in Europa i disoccupati di lungo periodo si sono attestati al 40% dei senza-lavoro complessivi. «Quasi la metà dei disoccupati infatti – ha precisato Scarpetta – cerca lavoro da 12 mesi e più». Il flagello rischia di diventare endemico: «Chi esce dal mercato del lavoro e rimane inattivo per troppo tempo – ha aggiunto il dirigente Ocse – potrebbe non rientrarci più per la perdita di competenze e aggiornamento». Gli interventi devono essere immediati e mirati. Se è stata unanime la richiesta di incentivazione di sussidi e sostegni economici programmatici, qualificazione e rilancio delle risorse umane, ottimizzazione di ricerca, innovazione delle aziende e formazione, più forte ancora è stata quella di rafforzamento dei servizi pubblici per l’impiego, capaci finora di «adeguarsi ai cambiamenti», producendo nei 27 Paesi Ue, ha precisato Ralf Resch, segretario generale del Centro Europeo dell’impresa pubblica, «trovando un’occupazione a 64 milioni di persone, impiegate in aziende che hanno prodotto il 26% del Pil UE». Ora purtroppo «dovranno saper fare ancora meglio - ha pronosticato Xavier Prats Monnè, direttore Strategia di Lisbona e Affari internazionali della Commissione UE – contando su sempre meno risorse. Si può fare, ma occorrono misure strutturali».Per l’Italia i traguardi di Europa 2020 saranno un cammino ad ostacoli: i nostri «colli di bottiglia» occupazionali prevedono come soluzioni una riforma delle pensioni e del sistema contrattuale, un considerevole accrescimento del tasso di occupazione delle donne, dei giovani, dei lavoratori maturi e l’assottigliamento del divario Nord-Sud attraverso il piano triennale messo in campo dal ministro Sacconi, ma soprattutto, secondo Roberto Cicciomessere, di Italia Lavoro, «lo sblocco della stagnazione produttiva, causata dal basso livello di innovazione, ricerca, qualità di lavoro e istruzione: fatto 100 il livello del 2000, nel 2008 la produttività del lavoro è cresciuta solo di mezzo punto percentuale, a fronte del 7,9% nei Paesi UE».Le priorità europee 2011 intanto puntano proprio sulla prevenzione della disoccupazione giovanile (doppia rispetto a quella generale) e femminile, con le proposte di un salario di ingresso differenziato in base all’età, una formazione che si agganci meglio al mercato del lavoro, flessibilità oraria e conciliazione vita-lavoro, strutture per l’infanzia. Indispensabile, secondo Monnè, il dialogo congiunto delle parti sociali, in un contesto di riforme economiche dei governi «realistiche e, soprattutto, attuabili». Un grido di dolore è arrivato dalla rappresentanza UE delle piccole e medie imprese: «Vogliamo vero acceso al credito, formazione e ricerca – ha concluso Andrea Benassi dell’Ueapme – e politiche industriali coordinate e coerenti. Rappresentiamo i 2/3 dell’occupazione privata, è impensabile non contemplarci nei programmi dei governi».