Economia

Lavoro. Ong critiche sulla direttiva di sostenibilità aziendale della Commissione Eu

Luca Liverani giovedì 24 febbraio 2022

Un provvedimento atteso da tempo, per la tutela dell'ambiente e dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo, sfruttati dai grandi marchi occidentali. Che però rischia di avere maglie troppo larghe e norme poco vincolanti. Il mondo delle associazioni e dei movimenti che da anni chiede un giro di vite per le grandi imprese, al fine di evitare il ripetersi di tragedie come il rogo in Pakistan nel 2012 della Ali Enterprises in cui morirono oltre 250 lavoratori che producevano abiti per grandi griffe. È critico il giudizio delle organizzazioni che si battono contro le delocalizzazioni e le catene di subappalti causa di sfruttamento brutale della mano d'opera a basso costo.

A cominciare dalla Campagna Abiti Puliti che accoglie con cautela la proposta sulla due diligence aziendale sostenibile, che la Commissione Europea (CE) ha pubblicato ieri dopo diversi mesi di ritardo. «Sebbene crediamo che l'introduzione generale di un obbligo vincolante per le aziende di effettuare la due diligence sui diritti umani e sull'ambiente sia un importante passo avanti, la proposta resta al di sotto delle nostre raccomandazioni su alcuni aspetti chiave. Chiediamo al Parlamento europeo e al Consiglio dell'Unione europea, chiamati ora a negoziare un testo finale, di accogliere le nostre proposte con l’obiettivo di migliorare concretamente le condizioni dei lavoratori e degli altri titolari di diritti».

Stabilimento tessile in Bangladesh - Foto Kristof Vadino per Clean Clothes Campaign

Abiti Puliti plaude all'inclusione esplicita della libertà di associazione e di contrattazione collettiva, del salario vivibile e della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro tra gli impatti sui diritti umani che le aziende dovranno affrontare. Positivo, »anche se con serie riserve», la possibilità di ritenere le aziende responsabili dei danni ai diritti umani nelle loro catene di valore. Ma la Campagna esorta il Parlamento europeo e il Consiglio «a rafforzare ulteriormente la responsabilità delle imprese e l'accesso delle vittime alla giustizia. Alle aziende non deve essere permesso di trasferire la loro responsabilità lungo la catena del valore attraverso i contratti o di sfuggire alla piena responsabilità in qualsiasi altro modo. Chiediamo inoltre che vengano smantellate le barriere che le vittime affrontano nelle controversie transnazionali»


«L'incendio mortale della Ali Enterprises in Pakistan è un tragico esempio di ciò che è in gioco: la società di revisione italiana R.I.N.A. aveva certificato come sicura una fabbrica di indumenti solo poche settimane prima dell'incendio in cui morirono oltre 250 persone. Con una direttiva efficace, le famiglie delle vittime avrebbero potuto ottenere giustizia, anche nei confronti dell’Auditor R.I.N.A. Invece al momento c’è il vuoto pneumatico intorno alle vittime. Persino una interrogazione parlamentare depositata a dicembre nei confronti del Ministero dei Trasporti (che indirettamente controlla RINA) non ha ancora ricevuto risposta e, a distanza di un decennio, le famiglie delle vittime devono ancora lottare per avere piena giustizia», dichiarato Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti.

«Tra gli aspetti negativi della proposta, invece, segnaliamo innanzitutto la scelta di applicare la direttiva solo ad aziende di grandi dimensioni, con più di 150 milioni di fatturato e 500 dipendenti, che diventano 40 milioni di fatturato e 250 dipendenti se attive nei settori ad alto rischio - come il tessile, l'abbigliamento e le calzature - ma con un'ulteriore limitazione al solo “impatto negativo grave», sottolinea Abiti Puliti. «Con riferimento al settore tessile, queste soglie minime sono molto deludenti e costituiscono una scappatoia per le numerosissime piccole e medie imprese attive in questo settore. È una pessima notizia per molti dei lavoratori e lavoratrici che producono abbigliamento, calzature e accessori venduti nei negozi europei», dice Neva Nahtigal della Clean Clothes Campaign.

«La proposta ha aperto un buon percorso che dovrà essere rafforzato per assicurare che tutti i lavoratori siano protetti. Molti dei più gravi abusi dei diritti umani, tra cui il lavoro forzato e il furto di salario, si verificano più in basso nella catena del valore» dichiara Muriel Treibich di Clean Clothes Campaign. La piaga del lavoro minorile coinvolge 160 milioni di bambini nel mondo, uno su dieci (Unicef), un dato tanto più drammatico considerando anche che era sceso a 151,6 milioni nel 2016 (dai 245,5 milioni del 2000) per aver poi un'inversione di tendenza. Si stima poi che siano 25 milioni i lavoratori forzati.

Anche Impresa2030, rete di organizzazioni tra cui ActionAid, Fairtrade, Finanza Etica, Mani Tese, Oxfam e Save the Children, segnala le «criticità evidenti» di una direttiva che riguarda «solo lo 0,2% delle imprese europee»: Con le soglie di grandezza previste resteranno escluse la «stragrande maggioranza delle imprese europee che per il 99% sono piccole e medie», sottolinea il co-portavoce Giosué De Salvo. Restano poi «ampi margini di aggirabilità», secondo Martina Rogato.