Caporalato & moda. Dior e Armani, perché l'Antitrust ha aperto un'istruttoria
L'Antitrust, l'autorità di vigilanza della concorrenza, ha avviato un'istruttoria nei confronti di confronti di alcune società del Gruppo Armani e del Gruppo Dior per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita di articoli e di accessori di abbigliamento, in violazione delle norme del Codice del Consumo. Secondo l'Autorità in alcuni casi le società avrebbero utilizzato forniture provenienti da laboratori che impiegano lavoratori che riceverebbero salari inadeguati. Inoltre opererebbero in orari di lavoro oltre i limiti di legge e in condizioni sanitarie e di sicurezza insufficienti, in contrasto con i vantati livelli di eccellenza della produzione.
La posizione di Armani e Dior: pronti a collaborare con l'Autorità
Il gruppo italiano Armani ha espresso fiducia in "una soluzione positiva" dopo che l'Autorità di vigilanza della concorrenza ha dichiarato che stava indagando sul gruppo del lusso per presunto inganno dei consumatori riguardo al proprio impegno sociale e alla propria artigianalità.
"Le aziende coinvolte sono pienamente impegnate a collaborare con le autorità, ritengono che le accuse non abbiano fondamento e sono fiduciose in un risultato positivo a seguito dell'indagine", ha affermato il gruppo Armani in una nota.
Toni analoghi per il marchio francese Dior che ha annunciato la piena collaborazione con le autorità italiane: "Consapevole della gravità delle violazioni commesse dai fornitori in oggetto e dei miglioramenti da apportare ai propri controlli e alle proprie procedure, la Maison Dior sta collaborando con gli organi giudiziari italiani". E' stato precisato inoltre che "nessun nuovo ordine sarà effettuato in futuro con questi fornitori".
Ma come si è arrivati a questa istruttoria? I precedenti in Tribunale
L'indagine dell'Antitrust segue le inchieste aperte dalla Procura di Milano nei confronti di fornitori del gruppo Armani e del gruppo Dior, accusati di aver sfruttato lavoratori per produrre borse per il marchio di moda.
Un mese fa era stata la sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano a disporre l’amministrazione giudiziaria nei confronti di Manufactures Dior srl, azienda di proprietà dell’unità italiana del gruppo di moda francese Christian Dior. In sintesi, sulla sentenza si leggeva che la società non aveva applicato le «misure adeguate per verificare la capacità imprenditoriale delle società appaltatrici alle quali affidare la produzione e non ha nel corso degli anni eseguito efficaci ispezioni o audit per appurare in concreto le effettive condizioni dei lavoratori e degli ambienti di lavoro».
E un'analoga inchiesta che si inseriva nel medesimo filone di indagini aperto dalla Procura di Milano sullo sfruttamento del lavoro, sempre coordinata dal pm Storari, all'inizio di aprile aveva riguardato la Giorgio Armani Operations, commissariata perché ritenuta «incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo» nel ciclo produttivo «non avendo messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato» si leggeva nelle carte dell'inchiesta di aprile.
Inoltre, un terzo gruppo nel settore della moda italiana era finito sotto indagine lo scorso marzo, stessi capi di accusa e stesso filone legato allo sfruttamento del lavoro: si tratta della Alviero Martini, azienda del settore moda specializzata in borse e accessori in pelle e cuoio, e posta in amministrazione giudiziaria nel settore dei rapporti con i fornitori per «aver colpevolmente omesso» di vigilare adeguatamente sulla sua catena di fornitura.
Molto critica la posizione di Federconsumatori che ha definito la vicenda "inaccettabile, se si pensa all'evidente contrasto tra i prezzi a cui vengono venduti i prodotti di quei marchi, che spesso superano diverse migliaia di euro e le condizioni di lavoro a cui sono costretti gli operai dei fornitori a cui queste rinomate aziende si rivolgono. Da marchi tanto eccellenti, che rappresentano il vanto delle produzioni made in Italy in tutto il mondo, ci aspetteremmo ben altre condotte. Che si tratti di greenwashing o di negligenza nel verificare attentamente le credenziali e l'operato delle società fornitrici a cui si rivolgono, poco cambia. Questa vicenda ripropone, ancora una volta, il tema sempre più centrale dell'etichettatura sociale delle produzioni".