Finanza. Derivati tossici, così si può disinnescarli
Il Comune di Milano ha perfezionato nel 2012 una transazione da 450 milioni, 40 subito e il resto spalmato in vent’anni, con quattro banche estere per i danni subiti nella sottoscrizione di costosissimi e tortuosi contratti derivati a partire dal 2005. I quattro istituti, Deutsche Bank, Ubs, JP Morgan e Depfa Bank, verranno poi condannati in primo grado e assolti in appello l’anno successivo, il 2013, perché «il fatto (la truffa, ndr) non sussiste». L’amministrazione di Albese con Cassano, 4mila abitanti fra i due rami del lago di Como, avrebbe dovuto pagare quasi mezzo milione di euro, come racconta Luca Piana in La Voragine, se il contratto firmato per avere delle risorse immediate di qualche decina di migliaia di euro, dopo essere stato rinegoziato, non fosse stato chiuso in anticipo con un esborso di 25mila. Il Comune di Firenze, invece, abbandonando la costosa difesa dinanzi all’Alta Corte di Londra, ha raggiunto un accordo extragiudiziale con Ubs, Dexia e Merril Lynch per prodotti finanziari 'estremi' acquistati il 26 giugno 2006. Tali derivati, come il contratto di Albese con Cassano, erano stati dunque sottoscritti prima del 2009: fino a quella data, gli Enti territoriali potevano utilizzare la 'finanza creativa' non solo per gestire meglio il proprio debito, ma troppo spesso, ahimé, anche per ottenere incassi immediati – in gergo upfront – da spendere subito in opere pubbliche o uscite improvvise da coprire. Con una disinvoltura colpevole e, soprattutto, senza valutare adeguatamente i rischi: tanto il conto, quasi sempre esorbitante, si sarebbe pagato negli anni a venire. Fino a quella data – ha calcolato la Corte dei Conti rilevando «gravi anomalie» che vanno dall’inadeguatezza degli apparati gestionali alle contabilizzazioni errate, passando per «contratti sottoscritti in lingua inglese senza traduzione» –, gli Enti periferici si erano riempiti la pancia di prodotti tanto arzigogolati quanto speculativi per 25 miliardi, oltre la metà nel portafoglio di Regioni e Province autonome, sui 160 complessivi in capo allo Stato italiano. Nel caso fossero stati chiusi alla fine del 2014, la perdita teorica sulla base del valore di mercato avrebbe superato i 40 miliardi.
Del resto, in quegli stessi anni gli Enti territoriali si comportavano pressappoco come l’amministrazione centrale. Nei primi anni Duemila, l’Italia ha sottoscritto derivati che garantivano subito un flusso di denaro in cambio di un esborso futuro per ridurre il fabbisogno e quindi contenere il deficit, pratica non più ammessa a partire dal 2013, quando sono entrate in vigore le nuove regole europee Sec 2010. La strategia aveva dato comunque frutto nell’immediato, consentendo di comprimere in un decennio (1996-2005) il deficit di oltre 11 miliardi, ma facendolo aumentare di 24 negli anni successivi con le 'rate' e i costi accessori da onorare. A partire dal 2006 l’obiettivo della finanza derivata – per lo Stato e per molti Enti locali – è diventato invece quello quello di 'proteggere' il debito e quindi, almeno nelle intenzioni, ridurlo attraverso i derivati Irs, acronimo che sta per Interest Rate Swap. In pratica, con questi contratti si può scambiare con la controparte un incasso a breve scadenza con tasso variabile, ancorato quindi all’Euribor, pagando alle banche d’affari una rata a lunga scadenza con tasso fisso. In base alla serie storica sui «Contratti derivati degli Enti territoriali » aggiornata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, l’ubriacatura di derivati risale proprio al biennio 20062007, anno in cui si è registrato il record del nozionale iniziale – il capitale su cui sono calcolati gli interessi scambiati dalle controparti – che ha raggiunto i 37 miliardi di euro. In quell’anno 796 Enti fra Regioni, Comuni e Province avevano sottoscritto complessivamente 1.331 contratti. Erano appena 6 quelli acquistati da 3 sole amministrazioni locali nel 2000.
La crisi del 2008 ha reso per l’Italia e per molti Comuni e Regioni questo tipo di contatti un autentico boomerang, visto che il taglio del costo del denaro e il successivo programma di acquisto titoli della Bce, il Quantitative easing, ha praticamente azzerato i tassi incluso l’Euribor e quindi i flussi dovuti dalle banche; mantenendo invece il costo fisso a lungo termine per l’acquirente del derivato chiamato 'Payer swap'. Detto in altri termini: quando l’Euribor scende, il cliente perde e la banca d’affari vince. Il Tesoro ha stimato nel Def per- dite tra il 2017 e il 2020 per 15 miliardi, 5 dei quali solo quest’anno. Ma proprio per questo tipo di contratti ancorati al tasso variabile entra potenzialmente in gioco, quale strumento di contenzioso degli Enti locali con le banche che hanno venduto gli Interest rate swap, la decisione della Commissione Ue di multare un cartello di sette istituti stranieri per la manipolazione dell’Euribor, tenuto artificialmente basso proprio per guadagnare con le 'swapations' (su questo tema nell’edizione di venerdì 13 aprile Avvenire ha lanciato un dibattito con l’intervento di Marco Bersani, ndr). Almeno in riferimento ai contratti stipulati tra il 2005 e il 2008 con un tasso variabile legato all’Euribor. Anche se (come spiega nell’intervista in pagina l’avvocato Cino Raffa, ndr) la strada dell’arbitrato internazionale è particolarmente complessa. Uno dei pochi Comuni che ce l’ha fatta a vincere davanti alla Suprema Corte inglese contro una banca straniera, Dexia Crediop, è quello di Prato. Non per lo scandalo Euribor, ma grazie a una norma del nostro Testo unico sulla finanza cui ha fatto riferimento il giudice britannico: l’amministrazione è riuscita infatti a ottenere l’annullamento di due derivati sottoscritti fra il 2002 e il 2006 perché non rispettavano l’articolo 30 del Tuf in cui si prevede il diritto di recesso entro sette giorni. Anche la regione Piemonte e la provincia di Crotone avevano tentato l’arbitrato internazionale, ma hanno desistito per i costi (impossibili) da sostenere.
Ci sono invece maggiori possibilità di vincere cause domestiche per la sospensione in autotutela dei contratti e, ancor più, di raggiungere accordi extragiudiziali – come ha fatto Milano – facendo leva su vizi di forma, consulenze occulte, conflitti d’interesse, commissioni implicite e oscurità contrattuali nei derivati sottoscritti. Il Comune di Viareggio ha recuperato l’anno scorso oltre la metà dei costi per due swap stipulati nel 2002 e nel 2003. Quello di Omegna ha potuto rescindere gli impegni assunti a suo tempo dalla giunta comunale con Unicredit per l’assenza di una delibera da parte del Consiglio comunale, unico soggetto titolato a deliberare su spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi. È un esempio di annullamento in autotutela che si basa su vizi del procedimento – l’incompetenza dell’organo che ha firmato il contratto – a monte della stipula del derivato. Argomentazione che potrebbe essere utilizzata anche altrove: la Corte dei Conti campana ha certificato ad esempio, a proposito di conflitto d’interessi quale grimaldello per annullare un contratto, che i consulenti del Comune di Scafati (Salerno) per la scelta del prodotto finanziario da utilizzare coincidevano con la figura dell’intermediario. Messina ha percorso invece la strada della composizione transattiva con Bnl per uno swap del 2003 ristrutturato nel 2007 da Dexia Crediop, accordo lontano dai Tribunali che ha portato a condizioni addirittura migliorative rispetto al possibile annullamento dei contratti in sede di arbitrato internazionale a Londra. La Banca Nazionale del Lavoro ha rinunciato infatti ai flussi insoluti e ai relativi interessi per un totale di 6,2 milioni di euro, mentre il Comune restituirà in vent’anni un importo inferiore al prestito della banca.
Percorso simile al Comune di Albenga che, rinunciando alla causa con Deutsche Bank, giunta sempre all’Alta Corte di Londra, ha rinegoziato il contratto swap sottoscritto con la filiale inglese della banca tedesca, ottenendo pure un risarcimento. Accordi extragiudiziali con Unicredit e Merrill Lynch li ha raggiunti infine, negli anni passati, anche il Comune di Verona per derivati stipulati su prestiti obbligazionari. Riconoscendo pure, nel caso della banca americana, «buona parte dei costi occulti denunciati » dall’amministrazione. Rovigo e Ferrara, invece, stanno studiando con società esterne specializzate la strada del contenzioso.
Negli ultimi anni, dunque, tornando alla serie storica del Mef, con il lavoro di pulizia intrapreso da molte amministrazioni virtuose, il nozionale di partenza complessivo è sceso a 17,7 miliardi (dato aggiornato al 4 gennaio 2018), con 169 Enti e 336 contratti derivati complessivi. Il valore del capitale ammortizzato sulla durata restante è sceso addirittura a 11 miliardi, dei quali 5,6 in capo a regioni e Province autonome (15 in tutto per 57 contratti), 3,8 per i Comuni capoluogo (104 amministrazioni e 144 contratti), 1,3 miliardi per le Province (23 con 65 derivati) e mezzo miliardo afferente ai Comuni non capoluogo, con 169 Enti interessati e 336 contratti in pancia. Certo, sommando i flussi netti di interessi sui derivati e i costi dei prodotti con il debito contabile, le perdite potenziali sono ben superiori e arrivano a decine di miliardi. Ma la strada per disinnescare la bomba, quanto meno, è stata tracciata. E andrebbe percorsa sempre di più dalle amministrazioni, con intelligenza e coraggio. ©