I giovani e il lavoro. Cambiare e apprendere, le sfide del lavoro
Quale futuro del lavoro per i nostri figli? Nessuno ha la sfera di cristallo e fare ipotesi sul futuro basandosi sull’oggi è sempre assai rischioso, per azzardare una risposta si può però partire da tre fenomeni, già ampiamente evidenti. Il primo è l’apparire di una nuova rivoluzione industriale. Dopo la prima, dovuta all’introduzione della macchina a vapore, la seconda, portata dall’elettricità, e la terza, derivante dall’informatizzazione, saremmo oggi di fronte alla quarta rivoluzione, conseguente all’evoluzione della robotica e dell’information technology nella direzione del cosiddetto 'internet delle cose' (IoT), che permette una personalizzazione sempre più spinta dei prodotti e una gestione sempre più efficiente ed efficace della catena di produzione, grazie alle connessioni possibili tra i diversi componenti che concorrono al processo produttivo. Il secondo fenomeno riguarda lo sviluppo della sharing economy, che vede aumentare esponenzialmente la connessione tra chi lavora, chi fruisce di quanto prodotto, chi organizza e offre intermediazione tra i due. Tale connessione stimola i lavoratori che si organizzano autonomamente in modo funzionale allo sviluppo di un’idea, di un progetto, fino alla sua realizzazione. Va a investire i potenziali clienti, che possono anche diventare finanziatori dell’impresa attraverso strumenti di crowdfounding. Si basa su piattaforme virtuali che non richiedono più luoghi fisici per svolgere l’attività lavorativa.
Il terzo fenomeno è relativo all’affermarsi di un lavoro sempre più on-demand, dove un modello di produzione just-in-time (che potremmo sintetizzare nella formula 'faccio se e quando/quanto mi chiedi') risulta enormemente enfatizzato. Si tratta di fenomeni conseguenti all’imponente sviluppo tecnologico, con la novità, rispetto al passato, che il contributo non riguarda più solo la riduzione della fatica fisica, ma - per certi versi - anche l’impegno dell’intelligenza. Grazie all’internet delle cose e, soprattutto, al ricorso sistematico ai big data, gli strumenti applicativi sono sempre più 'intelligenti' e chiedono di conseguenza un livello più sofisticato di controllo ed uso. Tutti i fenomeni citati vanno a colpire l’assetto tradizionale del tempo/luogo di lavoro. Il lavoro diventa sempre più 'agile': non solo nell’ambito dei mestieri smart, ma anche negli stabilimenti l’orario di lavoro e la sua sede fisica rischiano di diventare - per citare un attuale ministro - 'vecchi arnesi'. Con una importante ricaduta sul bilanciamento tra vita e lavoro, perché potenzialmente si può lavorare sempre, ma anche perché il lavoro può presentarsi in modo discontinuo. Da tutto ciò deriva la necessità di sviluppare nuove competenze, sia di contenuto, sia di tipo soft. In particolare il cambiamento di paradigma costringe l’utilizzo di due importanti metacompetenze, quella legata alla capacità di cambiare e quella dell’apprendere (che è poi la risorsa primaria di un cambiamento positivo). Un buon uso di queste competenze incrementa la resilienza delle persone, che poi non è altro che la loro capacità di evolvere e di 'mantenere intatta' la propria 'forma' anche a fronte di uno stress molto potente. Come potranno i giovani adattarsi meglio al futuro del lavoro, allora? Anzitutto attraverso il potenziamento della motivazione intrinseca. La motivazione personale può essere attivata, riattivata o sostenuta da fattori esterni (reddito, status, ecc.), oppure recuperando i suoi costituenti intrinseci come il bisogno che ciascuno ha di dire 'io' nel proprio agire ( autonomy), il bisogno di sentirsi in grado di fare ( competence), il bisogno di sentirsi in relazione con altri ( relatedness). C’è poi il bisogno di trovare senso e di attribuire significati a ciò che si fa e, non ultimo, la necessità di mettersi in azione per perseguire i propri desideri e i propri progetti ( agency), aprendosi così nuove possibilità personali ( selfempowerment). Queste sono dunque alcune direttrici lungo cui muoversi per sviluppare la resilienza nell’attuale contesto lavorativo, al cui interno emerge però un’ulteriore complessità di natura, per così dire, culturale. In modo estremamente sommario è possibile trovare nel sentire comune due differenti concezioni del lavoro. La prima, che è andata via via affermandosi con la modernità, legge il lavoro come una merce. Da tale lettura si ricava l’inevitabile conflitto tra capitale e lavoro, che arriva ad auspicare una 'liberazione' del e dal lavoro. Secondo un’altra concezione è invece possibile un’antropologia positiva del lavoro, secondo cui l’uomo è naturaliter lavoratore, perché desideroso di trasformare la realtà intorno a sé e in un lavoro così inteso l’uomo può esprimere la propria dimensione generativa. Possiamo trovare una qualche continuità tra la prima accezione considerata e il fenomeno in crescita della gig economy (da 'gig', in inglese 'lavoretto'): si lavora solo quando se ne ha il bisogno. Alcuni dati mostrano un volume in aumento di questa modalità di lavoro, pure ad oggi considerata dai più solo come strumento di incremento reddituale: faccio uno o più lavoretti per arrotondare il mio stipendio, oppure per produrre un po’ di reddito in attesa di trovare un lavoro 'vero'. Qualora dovesse però affermarsi il passaggio da una economia del lavoro ad una del 'lavoretto', dovremmo considerare la conseguente squalifica della dimensione generativa del lavoro. Un lavoro che è puro strumento reddituale soddisfa alcuni bisogni, ma certamente non il desiderio di costruzione. Si dovrà dunque prestare attenzione all’evolversi di questa concezione 'residuale' del lavoro. Oggi, rispetto al dilatarsi del fenomeno del lavoro on-demand, assistiamo a due possibili risposte. In un recente dibattito televisivo, l’ex ministro del lavoro Damiano, intervenendo sul lavoro accessorio (questo è la definizione tecnica che in Italia hanno i lavoretti) e sul suo abuso, assumeva una posizione che definirei 'protezionista', basata essenzialmente sui limiti da porre all’uso di strumenti di flessibilità. Un’altra risposta possibile - certamente più interessante e realista, ma anche più impegnativa - sta nell’intendere l’agilità, la flessibilità, non tanto come caratteristica del lavoro, quanto del lavoratore, come segnalavano recentemente Tiraboschi e Seghezzi dalle pagine di questo giornale (Avvenire, 19-2-2016). Questa posizione risulta più impegnativa perché implica mettere al centro non la norma o l’organizzazione, ma la persona. Questo ci porta all’ultima questione. Mi pare che ci sia un grande assente in tutto questo dibattere di trasformazioni del lavoro: l’educazione. La sfida della libertà del lavoratore, cioè dell’uomo, è innanzitutto una sfida educativa. Per affrontarla dobbiamo provare a rispondere a due domande centrali: educare a cosa? E come? Rispetto alla prima questione non avrei dubbi. C’è grande bisogno di recuperare un’idealità nel lavoro. Il fatto che il lavoro sia intrinseco alla struttura dell’uomo, che concorra al bene comune, che sia una possibilità di espressione o, addirittura, per dirla con Primo Levi, che amare il proprio lavoro 'costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra', 'è una verità che non molti conoscono'. Si tratta quindi, innanzitutto, di farla conoscere questa verità, con forza e con coraggio, per contrastare un mainstream che pare andare da tutt’altra parte. Accanto a questo, si dovrà porre l’attenzione sullo sviluppo di competenze davvero utili in questo mondo tumultuoso. Competenze tecniche, ma anche (mi verrebbe da dire, soprattutto) trasversali. È questo il momento delle non-cognitive skills, di cui finalmente anche gli economisti si sono accorti, ma che restano ancora molto distanti dai nostri sistemi di education. Rispetto alla questione del 'come' educare, forse varrebbe la pena di recuperare - pur in chiave innovativa - modalità tipiche della formazione al lavoro legate alla relazione con un 'maestro'. Parola oggi un po’ desueta, ma assolutamente centrata rispetto alla necessità di un apprendere che non sia solo il travasare nozioni in una brocca vuota (ormai la nostra brocca è inevitabilmente piena, connessa, collegata, on line), ma la possibilità di immedesimarsi con una passione del fare. La proposta di una diffusione dell’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ambiti del sistema educativo può rappresentare una buona possibilità, a patto che venga intesa dagli uni (le scuole) come un’opportunità e non come un adempimento, dagli altri (il governo) come un obiettivo importante su cui investire risorse.