Sono passati cinque anni da quando anche la gente comune ha imparato a conoscere i famigerati «mutui subprime»; a scoprire che negli Stati Uniti era stata gonfiata una gigantesca bolla dei prezzi immobiliari allo scopo di drogare il Pil; a rendersi conto che su quei mutui rischiosissimi e su quella bolla una finanza avida e irresponsabile aveva costruito un castello di carte al solo scopo di generare ricchezza e profitti oltre ogni logica economica e di buon senso. Cinque anni "di guerra", nei quali si è generata una crisi che col tempo ha assunto nuove forme e alimentato nuovi focolai, nata negli Usa ma che ha finito per contagiare e travolgere l’Europa. Era il 9 agosto 2007 quando le banche centrali di Europa e Stati Uniti si trovarono costrette a pompare liquidità nel sistema bancario per evitare il blocco della circolazione del denaro in seguito al blocco dei fondi di investimento Bnp Paribas esposti nei subprime. Da quel giorno è stata solo una cronaca di default di istituzioni finanziarie e di salvataggi da parte dei governi, fino al fallimento, nell’autunno 2008, della banca d’affari Lehman Brothers.Quando gli eccessi della finanza si sono trasformati in crisi planetaria di fiducia. Le distorsioni di un mercato senza regole né veri controlli, fondato sul dogma dell’arricchimento fine a se stesso, e protetto da una dottrina economica persuasa che proprio l’assenza di vincoli avrebbe riparato i danni garantendo la crescita eterna, hanno finito per rendere necessaria la ridefinizione ex novo dell’idea di uomo economico per come è stato fino ad ora descritto, bramoso cioè di perseguire solo il proprio interesse soddisfacendo solo bisogni materiali. La crisi finanziaria è diventata recessione nel 2009, e da un problema legato all’eccesso di credito, e dunque di debiti privati, si è trasformata in un fardello sui debiti pubblici, a causa delle risorse statali spese per salvare la finanza ma anche per la fuga di capitali dai Paesi meno competitivi. Il Vecchio continente si è trovato investito da una crisi che ha contribuito a creare solo in parte, pur con la responsabilità delle sue banche di stampo anglosassone, e che ora sta pagando a caro prezzo per non aver saputo costruire una vera casa comune, politica ed economica, attorno alla sua moneta.Uno scenario che ha permesso alla speculazione di accanirsi sull’euro, aprendo la drammatica stagione degli spread. E mostrando come non vi possa essere vera unione quando il deficit è di responsabilità e solidarietà. L’Europa è oggi alla ricerca di nuovi assetti e di una nuova identità, mentre sta accogliendo un’altra recessione. Non sarà facile uscirne e non in fretta. Cinque anni dopo, con 40 milioni di occupati in meno e 10mila miliardi di dollari spesi dagli Stati per salvare la finanza, e costi sociali paragonabili a quelli di un conflitto, è utile fare memoria delle tappe principali, provando a trarne alcune lezioni. A cominciare dalla prima: che la ricerca del solo interesse individuale, in luogo del bene comune, nel lungo periodo lascia solo macerie. (
Massimo Calvi)
L'EUROPA FRAGILE E DIVISA TRA DEBITI E RECESSIONEUn anno e mezzo fa gli europei non badavano molto agli spread. Il problema del Vecchio continente era semmai la ripresa, troppo debole. Il peggio sembrava alle spalle. La recessione globale del 2009 aveva colpito duro anche le economie più forti, ma quei dati sui Pil che cadevano sembravano archiviati. Il discorso valeva per tutti, ma non per la Grecia, la pecora nera della zona euro, il Paese che aveva truccato i conti e che nel maggio del 2010 aveva avuto bisogno di un salvataggio perché non riusciva più a ottenere prestiti a tassi accettabili dagli investitori.A novembre del 2010 l’Europa aveva dovuto salvare anche l’Irlanda, ma era un caso diverso: un’economia in salute dove però le banche erano in crisi per l’esplosione della bolla immobiliare. Ma in quel 2011 questi "casi diversi" iniziarono a diventare un po’ troppi. A maggio anche il Portogallo invocò e ottenne il soccorso comunitario per difendersi da investitori troppo preoccupati per concedergli credito. Già in quei giorni l’Europa incominciava a rendersi conto che questo problema del credito ai governi più fragili rischiava di degenerare. Allora si iniziarono a guardare gli spread: più un Paese era considerato incapace di restituire i soldi che chiedeva in prestito, più i tassi dei suoi titoli di Stato si allontanavano da quelli dei Bund tedeschi. Lo spread dell’Italia ad aprile 2010 era sotto i 100 punti, un anno dopo aveva toccato i 200, a maggio 2011 non era lontano dai 400.Nell’agosto 2011 gli spread di Italia e Spagna hanno iniziato ad andare fuori controllo, e la loro riduzione è diventata la prima urgenza. È l’ultima tappa di 5 anni di crisi: la sfiducia sulla capacità di ripagare i mutui degli americani si è trasferita sulle banche Usa, quindi su quelle europee che quei mutui li avevano comprati e, infine, sui governi che sono intervenuti per sostenerle e per rilanciare l’economia. I governi europei si sono così messi litigiosamente d’accordo sulla necessità di rimettere in ordine i conti pubblici. Le nuove tasse introdotte per tagliare i deficit e le brusche riduzioni di spesa hanno però spinto le nazioni dell’euro verso una nuova recessione che, diversamente da quella del 2009, arriva in un momento in cui nel resto del mondo l’economia non va così male. E gli spread, nel frattempo, sono saliti ancora. Per ridurli i leader europei stanno cercando un sistema di garanzie comuni sui debiti che però implicherà cessioni di sovranità difficili da accettare. È la ricerca di questa soluzione la prima urgenza dell’Europa, ma anche dell’economia mondiale che entra nel sesto anno della crisi sperando che sia l’ultimo. Bruxelles permettendo. (
Pietro Saccò)