Economia

IMPRESE ITALIANE. Crisi, 100 cooperative per salvare il lavoro

Luca Mazza mercoledì 31 luglio 2013
Nell’Italia delle imprese con le saracinesche abbassate, dei capannoni deserti e della disoccupazione dilagante c’è un fenomeno in controtendenza che è cresciuto negli anni della Grande Crisi, garantendo la sopravvivenza di realtà industriali destinate altrimenti a spegnere la luce. Tecnicamente si chiama workers buy-out  (lavoratori che acquistano in blocco). Si tratta di un’operazione finanziaria di salvataggio in cui si mescolano una serie di piatti prelibati della tradizione economica italiana: spirito imprenditoriale, impegno del non profit, partecipazione pubblica, coinvolgimento dei sindacati e disponibilità di alcuni istituti di credito. Come funziona in concreto? I dipendenti di un’azienda sull’orlo del baratro o già fallita decidono di trasformarsi in imprenditori della stessa pur di non restare a casa. Il primo passo è quello di riunirsi in una cooperativa per prendere in affitto o rilevare la società investendo i loro risparmi, l’indennità di mobilità e il Tfr. Non sono storie da libro delle favole, ma iniziative che si sono concretizzate lungo tutto lo Stivale e hanno permesso di salvare negli ultimi sei anni almeno 3.000 posti di lavoro.Dal 2008 al 2013 si contano circa 100 casi in cui la parola "fine" si è trasformata in "rinascita". Nella creazione di fabbriche senza padrone e guidate da nuovi "capitani coraggiosi", un ruolo strategico viene svolto proprio dalle coop che accompagnano i lavoratori-soci passo dopo passo. Particolarmente attive, attraverso la creazione di Fondi mutualistici, sono Legacoop, Confcooperative e Agci, che spesso operano in sinergia con l’investitore "istituzionale" Cfi (Cooperazione finanza impresa), società promossa dall’Alleanza delle Cooperative italiane e partecipata dal ministero dello Sviluppo economico. Queste realtà possono supportare la nuova impresa finanziando fino al doppio della cifra investita dai dipendenti-soci. «L’intervento è preceduto da una valutazione approfondita delle ragioni che hanno portato al crac e da un’analisi delle prospettive di ripresa del comparto in questione – racconta Aldo Soldi, direttore generale di Coopfond, il fondo di Legacoop che negli ultimi sei anni ha contribuito a finanziare 30 Pmi e permesso a 611 persone di riprendersi l’impiego –. Se ci sono queste condizioni, l’avventura può cominciare».L’idea che siano i dipendenti a salvare l’impresa è affascinante, quasi romantica, ma tutt’altro che semplice da realizzare. All’inizio la strada è sempre in salita, perché si ricostruisce dalle ceneri. «I primi tre anni sono di assestamento – sostiene l’esperto –. Superato questo lungo periodo di difficoltà, nel medio-lungo termine si possono raggiungere risultati significativi».A fare la differenza, però, è l’aspetto motivazionale. «Con il passaggio da un’impresa di capitali a una cooperativa i lavoratori si sentono maggiormente coinvolti nelle decisioni – analizza Soldi –. E non hanno paura di assumersi le responsabilità». Sospinta da un mix di disperazione e coraggio di reinventarsi, la lista delle aziende "comprate" da operai e impiegati si continua ad allungare. Una delle ultime in ordine di tempo è la VMW di Como, una cooperativa nata giovedì scorso grazie all’iniziativa di tre ex tute blu di un’azienda in crisi e con il supporto di Confcooperative. Fanno parte dell’elenco anche la Greslab di Scandiano (Reggio Emilia) – realtà della ceramica che nella sua nuova vita ha addirittura incrementato l’occupazione –, la Micronix di Pistoia, la NCS di Rimini e la Clab di Foiano della Chiana (Arezzo), nata dalla chiusura della T.A.b. Spa che fino a dieci anni fa era una delle prime aziende in Europa per numero di cabine doccia prodotte.Negli ultimi tre anni altre 36 imprese sono state riaperte con interventi di workers buy-out grazie al contributo del Cfi: oltre 11 milioni di euro investiti e 1.700 posti di lavoro salvaguardati. Non solo tutela dell’impiego: «Dal 2008 a oggi la cooperazione ha accresciuto l’occupazione dell’8% in assoluta controtendenza con gli altri modelli di impresa», annuncia Roberto Marcelli, presidente del Cfi. Ecco perché il ricorso a tale strumento ha subìto un’accelerata impressionante. «Queste iniziative si stanno dimostrando sempre di più una soluzione ideale per le aziende in liquidazione – racconta l’Ad del Cfi, Camillo De Berardinis –. Certo, non sempre è possibile intervenire, ma a coloro che vedono in bilico il proprio posto e hanno in tasca un progetto, lanciamo un appello: "Chiamateci, cercheremo di creare le condizioni per partire"».Con questo meccanismo finora è stata lanciata una ciambella di salvataggio a un centinaio di imprese italiane. Ma forse si potrebbe fare di più per offrire l’opportunità a un numero più ampio di ditte in default: «Le istituzioni europee dovrebbero approvare leggi che favoriscano queste formule – suggerisce Soldi –. Aiutare significa sia sostenere finanziariamente i progetti sia prendere coscienza degli sforzi che svolgono le coop sul territorio per il mondo del lavoro e per le aziende». E l’Ue ha iniziato a muoversi in questa direzione. Su iniziativa dell’europarlamentare Patrizia Toia, il Parlamento di Strasburgo ha approvato recentemente un rapporto per rafforzare il ruolo delle cooperative nel superamento della crisi.Anche perché se in passato i workers buy-out venivano utilizzati per risolvere problemi di ricambio generazionale (ad esempio in mancanza di "eredi" nella famiglia di un imprenditore), adesso si attivano quasi esclusivamente per evitare chiusure. Ma in futuro potrebbero esserci nuovi sviluppi, come anticipa De Berardinis: «Vogliamo proporre l’apertura di un tavolo di confronto con le parti sociali e con il governo per dare il via libera a una norma specifica che crei un canale semplificato per le cooperative di giovani dove venga tolto o fortemente ridimensionato il vincolo dell’investimento iniziale dei futuri soci per ottenere il finanziamento».Cfi e cooperative sociali ipotizzano che l’evoluzione dei workers buy-out possa essere rappresentata da uno strumento in grado di sostenere la nascita di start up o l’imprenditoria femminile. Il fenomeno, insomma, potrebbe cambiare pelle. Proprio come è avvenuto per gli ex dipendenti che si sono riciclati in piccoli manager.