Bilanci. Tra un 2023 positivo e una ripresa con il freno a mano tirato
La formazione e l'apprendistato da rilanciare nel 2024
La fine dell'anno serve anche a tirare le somme e a programmare gli interventi necessari per migliorare la situazione economica generale e il mercato del lavoro in particolare. Il nostro Paese chiuderà il 2023 con una crescita del Pil dello 0,7% e si prevede un +0,6% nel 2024. Sono le stime proprietarie che EY ha presentato nel corso del digital talk Investire in Italia. Ma come? Previsioni sul 2024. L’economia italiana nel 2023 ha beneficiato della dinamica positiva di alcuni dei fondamentali, come i consumi delle famiglie, sostenuti dalla crescita degli occupati. Consumi che hanno retto nonostante l’inflazione che nel 2023 ha raggiunto il 5,6%, ma che EY stima si ridurrà fino al 2,3% nel 2024, portando all’aspettativa di un progressivo allentamento della stretta monetaria a partire dal terzo trimestre dell’anno. Si riconferma, inoltre, la centralità del Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza per la crescita e l’importanza dell’esecuzione del piano così come programmato, che continua a spingere gli investimenti pubblici. Per il 2024 EY stima il consolidamento della crescita dei consumi e un contributo rilevante al PIL dalle esportazioni nette, avvantaggiate dalla ripresa della domanda in alcuni mercati chiave. Tuttavia, sarà l’andamento degli investimenti privati - che per effetto di varie forme di incentivi hanno raggiunto quota 19% del PIL nel 2023 - a pesare sulla crescita attesa nel 2024: a oggi, infatti, è previsto un +0,1% nel 2023, ma una contrazione dello 0,2% nel 2024. «Tra le principali categorie di investimento, quella dei beni intangibili rappresenta sempre più un elemento chiave e distintivo sia per mantenere la competitività delle imprese sul mercato sia per l’effetto traino in termini di produttività. Questi investimenti hanno visto una limitata crescita nel 2023 e l’ammontare complessivo rimane contenuto rispetto al totale degli investimenti: basti pensare che le stime EY per il 2023 evidenziano che la spesa in Ricerca & Sviluppo è intorno all’1% del Pil, in riduzione rispetto agli ultimi anni, a fronte del 3,5% della Germania e del 2,5% della Francia e dell’Eurozona (in media nel suo complesso). La ridotta propensione agli investimenti da parte delle aziende sta incidendo in negativo sulla capacità del nostro sistema economico di intraprendere un percorso di crescita più marcato. Non è un tema nuovo, in quanto il Pil dell’Italia dal 1990 a oggi è cresciuto di circa il 20%, la performance più bassa in Europa. Al contrario in quei Paesi – quali Usa, Francia, Germania e Spagna - dove vi è stato un maggiore slancio nello scommettere sul futuro, si è registrata una crescita rispettivamente del 110%, del 60%, del 50% e dell’80% del Pil», spiega Mario Rocco, Valuation, Modelling and Economics Leader di EY in Italia. Per quanto attiene alle strategie delle imprese per il futuro, i ceo italiani intervistati dall’EY ceo outlook pulse si dichiarano moderatamente ottimisti sui risultati delle aziende che guidano: il 66% si aspetta una crescita dei ricavi e il 52% si attende una crescita della profittabilità. Tra i principali rischi che potrebbero impattare le performance aziendali nell’anno che verrà al primo posto identificano la digital disruption (per l’88% degli intervistati), a seguire la volatilità e l’incertezza sui mercati (88%), i cambiamenti normativi e le pressioni dei regolatori sulle tematiche legate alla sostenibilità (84%), i temi geo-politici e le conseguenti barriere commerciali (82%). Proprio la sfida tecnologica è al centro dei pensieri dei ceo italiani per i prossimi cinque anni: oltre il 70% ritiene che l'intelligenza artificiale avrà un impatto significativo sulla generazione dei ricavi e sulla definizione dei modelli organizzativi e operativi, con la conseguente necessità di accelerare sugli investimenti connessi, sul reskilling della forza lavoro e su ricerca e sviluppo. Allo stesso tempo, solo un terzo degli intervistati in Italia, a fronte di circa il 50% a livello globale, ha confermato di aver sviluppato un piano strutturato relativo alla trasformazione tecnologica della propria azienda e di essere ora nella fase di implementazione. Per fronteggiare tale scenario, circa i due terzi degli intervistati confermano di voler incrementare nel corso del prossimo anno gli investimenti in Ricerca e Sviluppo, Capex, M&A e Corporate Venture Capital. A tal fine nei prossimi 12 mesi i ceo italiani utilizzeranno la leva transazionale per effettuare nuove operazioni di acquisto (42%); raccogliere capitali attraverso dismissioni di non core asset o processi di quotazione (46%) e accelerare la trasformazione dei modelli di business (54%) perlopiù attraverso join venture e alleanze. Un’opinione coerente con i dati registrati nel 2023: EY stima pari a circa 1.250 le operazioni di acquisizione e fusione con target in Italia – dato in linea con quello dello scorso anno – e un volume complessivamente investito compreso tra i 55 e i 60 miliardi di euro, in calo del 40% rispetto al 2022. Il clima di incertezza a livello economico e geopolitico ha determinato scelte di investimento più prudenti. In questo contesto, il ruolo del private equity è cresciuto ulteriormente di rilevanza, con un’incidenza stimata del 40% sul totale delle operazioni. Rimane invece solida la tendenza che riguarda l’attività di investimento delle aziende italiane nei mercati esteri: EY stima oltre 270 operazioni per un volume complessivo di poco inferiore ai 15 miliardi di euro. «I mercati stanno fattorizzando l’aspettativa di riduzione dei tassi di interesse a partire dalla seconda metà del prossimo anno, di riduzione dell’inflazione, di ripresa della crescita in alcuni mercati chiave, come quello europeo e in particolare tedesco, e di risoluzione dei conflitti a noi più vicini, Ucraina e Medio Oriente; ma c’è consapevolezza sulla fragilità di alcune di queste aspettative. Infatti, il 94% dei ceo italiani dichiara che è pronto a rivedere i propri piani di investimento per ottimizzare i costi e proteggere la produttività. In questo scenario, la leva transazionale resta un elemento fondamentale e lo dimostra l’andamento del mercato M&A nel 2023 che, seppure in una fase complessa, ha ottenuto risultati che inducono alla fiducia. Anche per il 2024 lo scenario transazionale, sebbene ancora intricato, mostra segnali positivi. In particolare, ci aspettiamo che il settore Industrial continui ad assorbire una quota rilevante della market share M&A in Italia e i nostri indicatori suggeriscono una ripresa dell’attività nel settore Consumer, molto penalizzato negli ultimi 18 mesi dalle incertezze circa la propensione agli acquisti delle famiglie. Inoltre, il settore Energy, sulla spinta della transizione energetica, continuerà ad attrarre risorse, con un ruolo crescente del private equity anche in questo caso. Ma al di là di questo, è necessario uno sguardo d’orizzonte, una visione del futuro: la chiave per aumentare l’attrattività del Paese per le aziende che vogliono crescere e per i talenti che vogliono operarvi risiede nella capacità che avremo di indirizzare le risorse private su progetti di investimento che aprano alla trasformazione portata dalle nuove tecnologie e dalla transizione energetica in corso», conclude Marco Daviddi, Managing Partner Strategy and Transactions di EY in Italia.
Inapp: pesano salari bassi, scarsa produttività e poca formazione
Dopo la crisi generata dalla pandemia il mercato del lavoro italiano ha ricominciato a crescere, ma questo percorso appare “accidentato” dalle criticità strutturali che lo caratterizzano: bassi salari, scarsa produttività, poca formazione e un welfare che fatica a proteggere tutti i lavoratori, non avendo alcun paracadute per oltre quattro milioni di occupati ‘non standard’ dagli autonomi, a chi è stato licenziato o è alla ricerca di un’occupazione, passando per i lavoratori della gig economy fino ai cosiddetti lavoratori poveri. In più sta emergendo la difficoltà delle imprese a coprire i posti vacanti, allargandosi sempre più così la forbice del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Sono questi alcuni degli argomenti sviluppati nel Rapporto Inapp 2023. Tra il 1991 e il 2022 – si legge nel Rapporto Inapp - i salari reali sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell’1%, a differenza dei Paesi dell’area Ocse dove sono cresciuti in media del 32,5%. In particolare, nel solo 2020 (terzo nell’anno della pandemia da Covid-19) si è registrato un calo dei salari in termini reali del -4,8%. In quest’anno si è registrata anche la differenza più ampia con la crescita dell’area Ocse con un -33,6%. Accanto a questo problema si è sviluppato anche quello della scarsa produttività: a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%. Anche il numero di assunzioni nel 2022 è peggiorato rispetto al 2021: 414mila nuove attivazioni nette nel 2022 a fronte di 713mila nel 2021. Si conferma un numero di attivazioni maggiore per la componente maschile (54% rispetto al 46% delle donne), mentre la categoria dei giovani, dopo essere stata colpita profondamente dalla pandemia e dalla precedente crisi del 2008, conferma il recupero di quote occupazionali: il 26% delle attivazioni del 2022 si concentra nella fascia dai 25 ai 34 anni, a seguire le quote dei 35-44enni (21%) e dei 45-54enni (20%). A questi aspetti se ne aggiunge un altro, di carattere demografico: l’invecchiamento della popolazione e della forza lavoro. Mentre nel 2002 ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 aventi 40-64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità. Ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono ben 1.900 lavoratori adulti-anziani. Il settore che di gran lunga ha i lavoratori più anziani è quello della pubblica amministrazione (3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane), seguito dal settore finanziario e assicurativo. Inoltre appare rilevante il numero di occupati che mostrano l’intenzione di lasciare il proprio lavoro. Si stima che il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni (oltre 3,3 milioni di persone) abbia pensato di dimettersi. Tale quota è composta da un 1,1% che lo farebbe anche se ci fosse una riduzione del tenore di vita e da un 13,5% che farebbe questa scelta solo se trovasse altre entrate economiche. Le quote più alte di chi ha intenzione di dimettersi, a prescindere dalla motivazione, si osservano in corrispondenza degli occupati con un diploma (18,9%), diminuiscono col crescere dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza. A volersi dimettere sono maggiormente gli occupati dipendenti, operanti nelle organizzazioni di media dimensione (15-49 addetti) e che svolgono la loro attività in imprese private. Nel pubblico l’1,5% dei lavoratori (contro l’1% del privato) lo farebbe anche se questo comportasse una riduzione del tenore di vita. Il desiderio di cambiare occupazione è maggiore per chi svolge lavori più faticosi e poco soddisfacenti. Da segnalare che un’esigua percentuale di aziende (4,5%) sostiene che l’introduzione del programma di incentivazione è stato importante ai fini delle loro decisioni di assunzione. La probabilità di ricorrere a uno o più schemi di incentivazione all’occupazione è maggiore del 50% per le imprese di grandi dimensioni (con più di 250 addetti), mentre si riduce sensibilmente raggiungendo il 24% per le microimprese. Le imprese del Mezzogiorno sono molto più propense a utilizzarle: circa il 38% delle imprese del Sud e il 36% di quelle localizzate nelle Isole dichiara di aver usato almeno un incentivo, contro il 20% (in media) delle aziende localizzate nelle altre aree. In generale, forme di agevolazione hanno interessato quasi due degli oltre otto milioni di nuovi contratti attivati nel 2022, ovvero il 23,7%. L’incentivo più utilizzato è stata la Decontribuzione Sud che ha riguardato il 65% dei nuovi contratti, seguito dall’Apprendistato (20%) e dagli incentivi rivolti a target specifici: Esonero giovani con il 4,7% e Incentivo donne, che ha inciso per il 4,8% sull’occupazione totale. Nonostante la pluralità di incentivi in campo, nessuno di questi istituti è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne. Dunque, la composizione e il relativo squilibrio di genere restano immutati. Inoltre, il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è a tempo parziale, contro il 32,2% degli uomini. Il ricorso agli incentivi, quindi, riproduce lo scenario noto di un’occupazione femminile minore per quantità (le donne sono il 40,9% delle assunzioni agevolate) e con minori ore lavorate. Resta confermato l’impegno dell’Italia a rivitalizzare l’apprendistato duale nei percorsi di IeFP di competenza regionale. Tuttavia, l’apprendistato duale continua ad avere una scarsa capacità di attrazione nei confronti delle imprese e dei giovani. Il peso dell’apprendistato duale, infatti, rimane residuale attestandosi tra il 3% e il 4% del totale degli apprendisti in formazione. Si conferma, inoltre, la tendenza alla concentrazione degli apprendisti per la qualifica e il diploma professionale in alcune macroaree e in un numero molto limitato di territori: la Pa di Bolzano e la Lombardia raccolgono da sole tra il 78% e l’83% degli apprendisti in formazione. Il perpetuarsi di queste disuguaglianze è la spia di divari strutturali mai risolti e introduce un ulteriore elemento di freno nell’aumento dell’utilizzo dell’apprendistato duale. Inoltre, a differenza di altri Paesi europei, in Italia si continua a registrare lo scarso utilizzo dell’apprendistato per l’alta formazione e la ricerca. Nel 2021 il numero di apprendisti inseriti nei percorsi per il conseguimento di un titolo di istruzione terziaria era di 609 unità, in calo rispetto all’anno precedente. Anche in questo caso si registra una notevole concentrazione territoriale degli apprendisti in formazione. Rispetto alla formazione continua si confermano i bassi livelli di partecipazione degli individui agli interventi formativi. La popolazione adulta di età compresa tra 25 e 64 anni che ha partecipato ad attività di istruzione e formazione è stata infatti nel 2022 pari al 9,6%. È una quota che denota comunque un avanzamento consistente rispetto al 2020 (+2,4%), ma che allontana l’Italia dall’Europa: nel confronto con il corrispondente valore medio europeo (11,9%), il nostro Paese perde terreno (-2,3%) rispetto all’avanzamento registrato l’anno precedente.