Economia

La riforma. Banche popolari, riforma sbagliata

Marco Girardo mercoledì 21 gennaio 2015
​Il premier Matteo Renzi parla di «momento storico», perché «dopo trent’anni di dibattito interveniamo attraverso questo decreto sulle banche popolari». L’intervento è in effetti a gamba tesa: Credito cooperativo e "taglie piccole" escluse, il Consiglio dei ministri ha presentato una mezza rivoluzione che costringe "per necessità e urgenza" – considerato lo strumento legislativo utilizzato – dieci banche popolari italiane a rinunciare alla natura cooperativa, dove "una testa vale un voto", e trasformarsi entro 18 mesi in Società per azioni, dove invece comanda chi ha più azioni.Dopo una limatura del testo durata sino all’ultimo minuto – e un duro scontro in Consiglio con Ncd, che ha ventilato l’ipotesi di tenersi le mani libere in Aula – il discrimine fra gli istituti popolari coinvolti o meno dalla riforma è quello degli otto miliardi di attivo. Non il fatto di risultare quotati in Borsa o meno, quindi, ma di essere cresciuti fino a registrare alla voce "attivi" in bilancio più di otto miliardi. E in Italia sono dieci le popolari giudicate sufficientemente grandi da dover diventare "Spa": dal Banco Popolare, la più grande di tutte, con un attivo tangibile superiore ai 123 miliardi, alla Popolare di Bari, la più piccola, con poco meno di dieci miliardi. Ci sono tutti gli indizi per supporre che prima sia stato individuato il numero di popolari da "trasformare", dieci tonde, e poi verificata l’altezza opportuna per l’asticella, gli 8 miliardi. Certo, in tanti fra i piccoli istituti, a partire dal sistema delle Bcc, possono tirare (per ora) un sospiro di sollievo: il «segale» è chiaro, ha sottolineato infatti ai banchieri nell’esecutivo Abi il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. La spinta di Via Nazionale c’è dunque stata. E l’ha confermato lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nel corso della conferenza stampa in cui il governo ha presentato il decreto Investment compact che contiene il provvedimento di riforma: «Anche questa volta c’è stata condivisione dei temi – le parole del ministro –, poi le decisioni politiche sono responsabilità del governo».E il governo ha deciso che il nostro sistema bancario, pur «serio, solido e sano», secondo il premier, ha però «troppi banchieri e troppo poco credito». A onor del vero, mentre l’intero settore ha perso in cinque anni 30mila dipendenti e alcune migliaia di sportelli, il mondo delle popolari ha saputo consolidarsi da solo. Tra il 2006 e l’anno scorso gli istituti sono scesi da 93 a 70, mentre gli sportelli sono aumentati da 7.700 a quasi 9.300 (con una quota che rappresenta il 25% del mercato), i dipendenti sono passati da 73mila a 81mila, i soci da 1,045 milioni a 1,340 milioni, i clienti da 8,1 milioni a oltre 12 milioni e il totale dell’attivo da 387 a 450 miliardi. Numeri indicativi sulla capacità delle popolari di affrontare la durissima crisi finanziaria e la lunga stagione di recessione economica. Numeri giudicati tuttavia non sufficienti. L’obiettivo del governo è infatti quello di «rafforzare il sistema per essere pronti alle sfide europee», ma senza «danneggiare i piccoli istituti» e senza toccare «il credito cooperativo». Si è scelto di procedere con un decreto, ha spiegato Padoan, «per dare un segnale di urgenza». E la scelta del governo, ha aggiunto, «concilia la necessità di dare una scossa forte, preservando però in alcuni casi una forma di governance che ha servito bene il Paese». Per questo si parte dalle grandi, anche se in futuro andranno valutati «altri suggerimenti di modifica» per le piccole. Peraltro si interviene in modo graduale, indicando 18 mesi per adeguarsi che sono «un tempo sufficiente per un processo che potrebbe essere completato in molto meno». Ma che deve passare ora al vaglio del Parlamento.