Economia

L'intervista. Baldassarri: «Adeguiamo all'inflazione solo gli assegni in linea con i contributi»

Eugenio Fatigante mercoledì 3 giugno 2015

Interrogato sulla delicata questione dell’equilibrio (o riequilibrio) della spesa pubblica Mario Baldassarri, uno dei più conosciuti economisti italiani (nonché ex viceministro del Tesoro dal 2001 al 2006), va dritto al cuore del problema: «Lo sa perché ogni anno non si trovano i soldi per il sostegno alle famiglie, per gli asili-nido, per la lotta alla povertà e per le spese sociali in genere o se ne impiegano troppo pochi per la scuola e l’innovazione? Anche perché oltre 42 miliardi di euro se ne vanno per pagare le pensioni a chi riceve più di quanto avrebbe diritto se il suo assegno fosse calcolato col metodo di calcolo contributivo, ovvero incassa più di quanto ha versato nella sua vita lavorativa». È una cifra impressionante… Già. Ma non carichiamo la croce solo addosso ai pensionati. Se ci mettiamo anche i 25 miliardi circa di spese per consumi intermedi (acquisto di beni e servizi) della Pubblica amministrazione, dove si annidano ancora molti sprechi e ruberie, e i 30 miliardi dei contributi dati a vario titolo alle imprese, arriviamo a circa 100 miliardi che solo in minima parte sono impegnati nella direzione di spese per la nostra crescita e per un futuro più competitivo per tutti. Davanti a queste cifre, quale senso ha poi andare a pietire alla Ue per avere 4-5 miliardi di flessibilità in più? La verità è che la crisi ce la siamo costruiti da soli, con le nostre mani. Paradossalmente, la recessione avuta dal 2008 è stato l’alibi perfetto per la politica: purtroppo ora non ci sono risorse, è stato il ritornello. La voce più grossa, tuttavia, rimane quella della previdenza. Inevitabile. Per le pensioni se ne va circa il 16% del nostro Pil annuo. Il punto di partenza è la riforma Dini del 1995. Sa come era titolato il mio primo commento a quel provvedimento, 20 anni fa? "Il tallone d’Achille di una sacrosanta riforma". Sacrosanta perché, senza di essa, sarebbe esplosa la spesa e il Paese sarebbe andato a rotoli già da tempo. Ma con un tallone d’Achille appunto, perché produceva una redistribuzione perversa, una profonda spaccatura fra giovani e anziani. Per via del principio del contributivo introdotto solo per chi aveva all’epoca meno di 18 anni di contributi versati. Sentenza della Consulta a parte, perché il tema esplode oggi? Perché dopo 20 anni stiamo vivendo proprio il picco degli italiani che lasciano il lavoro con una pensione più alta di quella che avranno i loro figli e nipoti. E così sarà fino al 2034-35. Oggi abbiamo che l’88% delle pensioni erogate sono calcolate col più generoso metodo retributivo, un 3% con un sostanziale pro rata (parte retributivo e parte contributivo) e poi abbiamo solo un 9% di assegni dove prevale il contributivo. Quanto ricevono in più quei fortunati in pensione col retributivo? Lo squilibrio massimo oscilla fra il 50 e il 60% in più. Ma può andare anche oltre per quei pensionati-baby che avevano lavorato solo 16 anni e se n’erano andati via a 40 anni d’età: per costoro il contenuto coperto dalla collettività è pari all’82% della pensione che incassano. Con un’aspettativa di vita salita per fortuna a 85 anni, anche con una pensione da mille euro è come se ricevessero in totale un regalo - perché di ciò si tratta, in fondo di 442mila euro. Il fatto è che c’è una redistribuzione perversa anche fra anziani della stessa generazione. Vale a dire? Mi spiego: tutte le pensioni retributive hanno dentro un 'pezzetto d’oro', per così dire, ovvero una quota non rapportata ai contributi effettivamente versati ma coperta con le tasse pagate da tutti. Se per un pensionato povero, a mille euro netti al mese, quella quota vale però solo 200 euro, per uno che ne riceve 4mila ecco che la quota sale a 800 euro mensili.

Un bel 'regalo'. Ma se uno propone un intervento, gli si obietta subito che quelli sono diritti acquisiti. Più che acquisiti, parlerei di diritti legittimi. Nel senso che queste persone ricevono ovviamente quello che spetta loro in base alle regole dell’epoca. Ciò non toglie che ci sia una bella dose d’iniquità. E negare l’evidenza non aiuta a comprendere il problema. Ma oggi come si può intervenire? Giù la maschera. Sa da cosa partirei? Da una maxicampagna informativa, una sorta di 'busta arancione' al contrario: spediamo a casa di ogni italiano oggi in pensione con il retributivo una bella lettera dove gli si ricorda l’assegno che riceve e accanto gli si calcola la somma a cui avrebbe diritto se la sua pensione fosse stata calcolata per intero col contributivo. Io gli aggiungerei poi due righe per dirgli che 'quello che ricevi in più è una differenza sottratta a tuo figlio e agli altri giovani'. Vuole far scoppiare una vera guerra generazionale? No. Vorrei far capire agli italiani come stanno le cose. Ed è utile ricordare che quello in vigore è un sistema previdenziale a ripartizione: i contributi versati ogni mese dai lavoratori (e dai datori di lavoro) transitano per l’Inps e sono immediatamente usati per finanziare le pensioni in pagamento. Ma questo aveva un senso nel 1969 quando, con 4 lavoratori attivi per ogni pensionato, bastava il 25% di contributi a testa per pagare una pensione. Oggi siamo al 33% di contributi e il rapporto attivi/pensionati è di 1 a 1. Lo capiamo che, a meno di un’improvvisa risalita dell’occupazione, il sistema non regge? I ministri Padoan e Poletti si sono detti però contrari al ricalcolo delle pensioni col contributivo, ipotizzato invece dal presidente dell’Inps, Boeri. È la politica di sempre, anche di quando ero io al governo. La politica ha un orizzonte di 12 mesi, fino alle prossime elezioni, raramente guarda oltre. Lei cosa propone? Anziché pensare a cervellotici contributi sulle pensioni d’oro o a criteri fissati col machete per garantire la rivalutazione solo fino a 1.500 euro, io lascerei per tutti il principio dell’adeguamento all’inflazione ma stabilendo che il corrispondente aumento non viene pagato al pensionato fino a concorrenza del 'regalo' che gli è stato dato, ovvero fino al recupero della somma che ha già ricevuto in più grazie al metodo retributivo. Insomma, una perdita del potere d’acquisto, ma per tutti diluita nel tempo. Ma assieme alla campagna informativa gli italiani potrebbero capire che solo così ci possiamo assicurare ingenti risorse per favorire la crescita.