Randstad Workmonitor. Aumento di stipendio, primo motivo per cambiare lavoro
È l'aumento di stipendio, prima ancora dell'opportunità di crescita professionale o di un profilo maggiormente in linea con i propri studi, la motivazione che spinge gli italiani a cercare un nuovo lavoro. I dipendenti del nostro Paese mostrano una posizione contraddittoria sull'impiego attualmente ricoperto: per il 62% è il “lavoro ideale”, ma allo stesso tempo per il 61% rappresenta “solo un modo per guadagnarsi da vivere”. In media, i lavoratori sono pronti a mettersi alla ricerca di un nuovo posto, senza eccessiva fiducia in una svolta di carriera (il 58% è convinto che sia già determinata dal primo impiego) e senza troppa urgenza (per il 62% si può sempre cambiare lavoro in qualsiasi altro momento). Facendo affidamento sulle Agenzie per il lavoro (Apl), che oggi sono scelte dal 76% di chi è disoccupato, ben sopra la media mondiale, e considerando il lavoro temporaneo sempre più un trampolino di lancio per un contratto a tempo indeterminato. Ma, nell'attesa di trovare un nuovo impiego, chi un lavoro ce l'ha se lo tiene stretto: oltre otto lavoratori italiani su dieci, più di tutti in Europa, sono concentrati nell'ottenere una promozione nel posto attuale. Sono alcuni dei risultati del Randstad Workmonitor, l’indagine sul mondo del lavoro realizzata in 33 Paesi del mondo da Randstad, secondo player al mondo nei servizi di risorse umane, che nel secondo trimestre 2014 ha monitorato l’atteggiamento dei lavoratori verso la mobilità. La popolazione di riferimento dello studio (oltre 400 interviste in Italia) è costituita dalle persone con età compresa tra i 18 e i 65 anni che lavorano per almeno 24 ore alla settimana e che percepiscono un compenso economico per questa attività. "In Italia - commenta Marco Ceresa, amministratore delegato di Randstad Italia - si registra una curiosa parità tra chi sostiene di svolgere il lavoro ideale e chi lo ritiene esclusivamente una fonte di reddito. In realtà, la motivazione a cambiare lavoro è elevata, giustificata dalla diffusa esigenza di migliorare il livello retributivo, oltre che all'aspirazione di un percorso di crescita professionale. Meno forte è la spinta verso un percorso più coerente con i propri studi, che fortunatamente appare un campo di maggiori conferme se sette italiani su dieci dichiarano di svolgere un lavoro che si addice alla loro formazione e sei su dieci sceglierebbero lo stesso percorso formativo se dovessero ricominciare da capo. In questo contesto e in un momento in cui la speranza della ripresa si accompagna alla difficoltà per il perdurare della crisi economica, emerge un dato positivo: cresce la fiducia degli italiani nelle Apl. Una dimostrazione del buon livello di integrazione raggiunto nel mercato del lavoro italiano e una testimonianza dei risultati che le agenzie specializzate sono in grado di offrire ai lavoratori nella ricerca del proprio lavoro ideale e nella definizione del miglior percorso di carriera". Secondo il Randstad Workmonitor, per un numero significativamente elevato di lavoratori italiani (il 62%) l’attività ricoperta attualmente rappresenta il lavoro ideale, una posizione condivisa da uomini e donne e in generale a tutte le età. Contemporaneamente, però, il 61% dichiara che il proprio lavoro "è solo un modo per guadagnarsi da vivere, niente di più". Una sostanziale parità che ci differenza da altre aree del mondo, dove si delinea una prevalenza tra le due affermazioni. Analizzando il saldo fra idealizzazione e funzionalità del lavoro nei 33 Paesi oggetto di indagine, infatti, il Nord Europa (e nello specifico Norvegia, Austria, Lussemburgo e Danimarca) si distingue per la netta superiorità di chi sostiene di ricoprire già il suo lavoro ideale. Viceversa, in Asia (e in particolare Malesia, India, Singapore e Hong Kong, più l'eccezione dell'Olanda) prevale il pragmatismo di chi guarda al lavoro principalmente come fonte di reddito. In generale, il 67% dei dipendenti italiani si dice soddisfatto di lavorare nel suo posto attuale. Quello che sembra un buon risultato, in realtà, posiziona l'Italia appena al 25º posto per soddisfazione tra i 33 Paesi oggetto di indagine, ben lontana dall'80% del Messico, dal 79% della Norvegia, dal 77% dell'India. I lavoratori meno soddisfatti al mondo appaiono quelli di Hong Kong (46%) e Giappone (40%). In un aspetto però l'Italia si distingue nettamente in Europa: l'82% dei suoi lavoratori, più di tutti nel continente, oggi è concentrato nell'ottenere una promozione nell'impiego attuale (il 30% è “fortemente incentrato”, il 52% “abbastanza concentrato”. Nel mondo, è superata solo da Messico(89%), India (86%) e Brasile (84%). L'81% dei lavoratori italiani cambierebbe lavoro se potesse guadagnare di più (contro una media globale del 75% e una media europea del 70%). Il 73% invece lo farebbe per migliori possibilità di carriera (più della media globale, 69%, e molto più di quella europea, 61). E il 63% se ne trovasse uno più in linea con la propria formazione scolastica (anche in questo caso, più della media mondiale, 59%, ed europea, 51%). Quindi, tra le motivazioni per cambiare il lavoro, una bassa coerenza con il percorso dell’istruzione è largamente subalterna alle ragioni economiche. Una posizione che trova conferma nel 71% di lavoratori secondo cui il lavoro svolto si addice alla propria formazione. E al 62% che, se dovesse ricominciare da capo, sceglierebbe lo stesso percorso formativo. Se in Italia emerge una generale disponibilità alla mobilità, questa non significa un'urgenza di cambiare lavoro al più presto: il 62% degli italiani crede sia possibile farlo anche in qualsiasi altro momento (più della media globale, 58%). Ciononostante, in pochi credono sia possibile una vera svolta di carriera: quasi otto dipendenti su dieci in Italia (per esattezza il 79%) ritengono che nei prossimi tre anni svolgeranno un lavoro simile a quello attuale. E la maggioranza (il 58% contro il 44% della media globale) pensa che il primo lavoro ricoperto determini il resto della carriera. Pur non essendo fra i Paesi più convinti della formula del lavoro temporaneo, anche in Italia sta crescendo la convinzione che questo rappresenti un punto di transito efficace per arrivare a un lavoro stabile e duraturo, in particolare a sostegno dell’ingresso delle nuove generazioni. Il 69% dei lavoratori italiani ritiene che il lavoro temporaneo possa costituire un trampolino di lancio per ottenere un lavoro a tempo indeterminato, una percentuale significativamente più bassa rispetto alla media globale (72%), ma in evidente crescita rispetto ad un anno fa (58%). Il 53% degli italiani ritiene che il lavoro temporaneo sia adatto ai giovani, in crescita rispetto al 47% del 2013. In questo processo, si conferma il valore di partnership attribuito dagli italiani alle Apl, a cui si rivolgerebbe il 76% dei lavoratori in caso di disoccupazione (ben più della media globale, 69%). Una fiducia in crescita rispetto ad un anno fa in particolare tra i lavoratori più anziani (+11% rispetto al 2013) e della pubblica amministrazione (+6%). Un'esigenza particolarmente sentita in un mercato del lavoro in cui il 52% dei lavoratori ritiene di aver ottenuto
il primo impiego “per caso”, quando è entrato nel mondo del lavoro.
La diffusione di tecnologie sempre più specializzate costituisce una presenza ormai ineludibile nel
mondo del lavoro. Lo riconoscono i lavoratori di tutti i Paesi del mondo considerati dal Randstad
Workmonitor nel secondo trimestre 2014. E ben il 78% dei dipendenti italiani ritiene che la
tecnologia influisca notevolmente sul proprio lavoro.
Ma di che tipo di influenza si tratta? Per lo più di un'opportunità, come ritiene l'83% degli italiani
(contro il 73% della media globale). Ma è allarmante che quasi un terzo dei lavoratori (29% in
Italia, 24% nella media globale) ritenga che entro due anni il proprio lavoro scomparirà a causa del
processo tecnologico.
Analizzando le due percezioni sulla tecnologia come opportunità e come rischio nei 33 Paesi
oggetto di indagine si individuano alcune tendenze comuni a livello territoriale, correlate anche allo
sviluppo dei relativi mercati del lavoro. La tecnologia è soprattutto un'opportunità per i lavoratori
dell'America Latina (Argentina in primis, poi Messico e Cile) e della Grecia. È uno strumento a
doppio taglio, invece, con opportunità e rischio entrambe sopra la media in Asia (India su tutti, ma
anche Cina, Malesia, Hong Kong, Singapore) e negli Stati Uniti: in questa categoria si colloca
l'Italia, in compagnia della Spagna tra le nazioni europee. Per Paesi occidentali come Francia
Australia Canada Gran Bretagna Giappone, invece la tecnologia ha già sviluppato la sua massima
carica in opportunità, mentre il rischio si affaccia in misura superiore alla media.