Economia

Inchiesta. Andare oltre il Pil per crescere

Andrea Di Turi venerdì 18 settembre 2015
Si parla da decenni di andare oltre il Pil. Ma la grande sintesi espressa da quel numero, dai più considerato sinonimo del livello di benessere oltre che di ricchezza economica di un Paese, fa sì che esso sia ancora il perno su cui ruotano le valutazioni e le decisioni politiche che indirizzano le nostre vite. Ne consegue che resta in secondo piano tutta una serie di dimensioni ormai ampiamente condivise, specie a livello accademico, e obbligatoriamente da considerare insieme all’aspetto economico quando parliamo di benessere. «Se la crisi c’è, forse è anche perché non abbiamo pensato davvero al benessere di persone e famiglie ma ad altro", sintetizza la professoressa Filomena Maggino, docente di Statistica sociale all’Università di Firenze e membro della Commissione scientifica del progetto Bes-Benessere equo e sostenibile, l’indicatore "oltre il Pil" proposto da Istat e Cnel. «È importante innanzitutto capire – spiega – come siamo arrivati a discutere di questo tema, quali obiettivi ci poniamo e, soprattutto, quali sono i valori di riferimento».Qual è il cammino che ha portato il dibattito sugli indicatori di benessere alla rilevanza che ha assunto oggi?Il movimento scientifico per l’utilizzo di indicatori sociali per monitorare il benessere dei Paesi, considerando non solo i macro-fenomeni ma anche quelli micro, legati a individui e famiglie, nasce negli anni ’70. Poi si è un po’ perso e non è riuscito a incidere. Anche perché non aveva indicato obiettivi precisi, cioè: cosa stiamo misurando? Quali sono le priorità della società? Tutto, infatti, dipende da come definiamo e misuriamo la qualità della vita. La Società internazionale per gli Studi sulla Qualità della Vita (di cui Maggino è stata presidente; ha fondato ed è presidente della corrispondente Associazione italiana per gli Studi sulla Qualità della Vita, ndr) è nata dalle ceneri di quel movimento. Poi nell’ultimo decennio c’è stata una serie di tappe, a partire dal primo forum Ocse sul benessere organizzato nel 2004 a Palermo dal professor Enrico Giovannini, che ha riportato il tema all’attenzione della politica.Che chance ha il Bes di "entrare in politica", diventando strumento effettivo di supporto alle decisioni? In Italia nei mesi scorsi è stata anche avanzata una proposta di legge in tal senso… La costruzione concettuale e metodologica del Bes è robusta, anche perché è il risultato di un’ampia partecipazione della società civile e di approfondite discussioni in sede scientifica, specie sull’inserimento degli indicatori soggettivi (il riferimento è in particolare alla dimensione Benessere soggettivo del Bes, ndr): circa il 20% degli indicatori inizialmente individuati, ad esempio (il Bes ne comprende 134, suddivisi in 12 dimensioni, <+CORSIVOA>ndr<+TONDOA>), sono stati poi eliminati. È importante anche l’accento che si è posto sull’equità e la sostenibilità del benessere, cosa che altri indicatori non fanno. Già da molto tempo, poi, l’Istat aveva un patrimonio avanzato e una notevole esperienza tecnica e metodologica sui dati soggettivi e sulle statistiche ufficiali in campo sociale e ambientale. Che rappresentano il passaggio fondamentale.Vale a dire?Per contare nelle decisioni, gli indicatori di benessere devono entrare nelle statistiche ufficiali, diventare patrimonio conoscitivo comune e riconosciuto. Il ruolo degli istituti centrali di statistica, autonomi com’è l’Istat, anche più degli uffici centrali di statistica che fanno capo ad esecutivi, com’è il caso di Destatis in Germania, è determinante. Regno Unito, Nuova Zelanda, Australia sono fra i Paesi più avanti in quest’ambito.Oltre al contesto macro in cui nasce, il Bes è adattabile a quello micro?Questa riflessione è stata già avviata (coi progetti UrBes, per le città metropolitane, e il Bes delle province, mentre entro fine anno è atteso il terzo Rapporto Bes nazionale, ndr) e sono in corso sperimentazioni. C’è un lavoro di adattamento da fare, perché da una parte non tutti gli indicatori Bes sono declinabili a livello locale, dall’altra esistono specificità territoriali che richiedono di essere evidenziate a livello di indicatori.Ma è fattibile, e auspicabile, un indicatore di benessere sintetico come il Pil?Ci sono problematiche concettuali e tecniche da risolvere, perché il Pil misura solo un aspetto della realtà, mentre questi indicatori considerano molte più cose e pongono la sfida della comunicazione della complessità. Ma, ribadisco, la questione più importante sono i valori, ciò a cui una comunità assegna priorità. In questo senso l’enciclica Laudato si’, che sottolinea la necessità di considerare il rispetto dell’ambiente quando parliamo di benessere, insieme a tante affermazioni di papa Francesco, come quelle recenti sul lavoro domenicale e i tempi di lavoro, sono molto importanti per definire la struttura valoriale da condividere.I nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu aiuteranno l’affermazione di indicatori "oltre il Pil"?Rilevo un importante cambio di strategia, dato che i nuovi obiettivi riguardano non più solo i Paesi in via di sviluppo, ma tutti. L’auspicio è che anche la conferenza Cop21 di fine anno a Parigi dia indicazioni importanti in questa direzione. A contare più di tutto, però, è la volontà di promuovere questi temi.