Il femminile subordinato. Sedie vuote da riempire. Cominciamo con le parole
Invocata e calpestata, talvolta irrisa, svilita e per questo depauperata, la pace ha un disperato bisogno delle donne. Il perché lo trovate sulle pagine del giornale, con diverse declinazioni - digitali, video, social, “live” - grazie all’iniziativa editoriale di Avvenire coordinata da Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani.
Il perché del progetto #donneperlapace, invece, ha a che fare con le parole per dirlo e tempi lunghi. Entrambi necessari, il tempo e le parole, a colmare un vuoto, una mancanza di sguardo alternativo, di contro-narrazione sulle modalità con cui da sempre l’uomo si è abituato, nel piccolo e nel grande, a gestire i conflitti e cioè con i rapporti di forza. Questione di educazione e cultura, non pura natura. Vero, c’è nell’umanità un impulso alla autodistruzione che alimenta la vocazione allo scontro e si traduce in parole di guerra – quasi sempre maschili. Ma nella stessa umanità, per natura, alberga un istinto di cooperazione, una spinta solidaristica per la quale siamo in grado, come specie, di rinunciare a un vantaggio immediato per un bene a più lungo termine. Tale dimensione fondativa dell’umano rimane tuttora culturalmente e politicamente subordinata. Ed è proprio quella che determina il nesso tra sviluppo e pace di cui le donne sono testimoni poco ascoltate. Per questo c’è bisogno di raccontarlo, quel legame, e di raccontare, le donne per la pace, facendo conoscere i luoghi e i modi in cui operano, continuamente, sul palcoscenico della quotidianità e, come leggerete, anche su quello della Storia. In fondo siamo esseri narranti.
Le storie che ascoltiamo influenzano la nostra vita, anche se non ne siamo consapevoli. Vero e falso sono attributi del discorso, diceva Thomas Hobbes. E laddove non c’è possibilità di discorso, dove non ci sono parole a costruire mondi, non c’è nemmeno verità o falsità. Esiste dunque un’altra narrazione possibile, non incentrata sull’automatismo della prevaricazione e sopraffazione. E va in ogni modo incoraggiata, perché penetri nel mondo della politica, dell’economia e dell’educazione. In questo processo – che si sviluppa sul piano culturale – il giornalismo conserva e probabilmente ritrova tutta la sua forza e la sua funzione.
Lo scorso anno Avvenire ha sostenuto le donne afghane, la loro lotta impari per la pari dignità, la libertà e i diritti basilari. Ora daremo voce a oltre venti testimoni che hanno messo in gioco tutte se stesse per costruire le pre-condizioni della pace. Per darne il giusto riconoscimento e valore, come annota Loredana Teoderescu, presidente di “Women in international security Italy”. Per raccontare l’altra storia. E per riempire un vuoto, si diceva.
Il vuoto della sedia riservata a Narges Mohammadi, l’attivista iraniana per i diritti umani Nobel per la Pace 2023, che non ha potuto ritirare il premio perché rinchiusa nella prigione di Evin a Teheran: nel municipio di Oslo, il 10 dicembre scorso, c’era solo una gigantografia da cui sembravano quasi fuoriuscire i suoi capelli scuri, ricci. E liberi. Accanto, i figli Kiana e Ali, che le hanno dato voce leggendo il suo testo. Idealmente, con il progetto #donneperlapace, ci uniamo a loro nel dare sostanza a quell’assenza e contribuire a occupare la sedia vuota di Oslo e tutte le sedie in cui – dentro le case o ai tavoli negoziali – si costruisce cultura di pace.