Donne per la pace . Dalla Liberia al Camerun, così le africane diventano protagoniste
Elena L. Pasquini
La firma in calce agli accordi di pace è quasi sempre quella degli uomini, le donne vanno cercate ancora più in fondo, bisogna scendere fino alle radici, alle grassroots, nelle comunità, alla base. Le donne sono lì, dove si combatte e si subisce la guerra. È lì, tra la gente, nella società civile, che le donne tessono, o forse ricamano, con punti stetti e pazienti quella pace che una firma da sola non garantisce. Attiviste, mediatrici, peacebuilders, le donne si muovono dove non le vede nessuno per aprire varchi e costruire ponti, ma poi arrivano dove essere viste significa mettere a rischio la vita, fino alle piazze e ai tavoli dove siedono gli uomini. È successo e succede in Camerun, in Liberia, nelle Filippine, in Colombia o in Yemen, in Palestina, in Irlanda. E la storia, allora, muta corso.
Lavorano nell’ombra, ignorate, fino a quando non gridano. Sono passati vent’anni dagli accordi di Accra che hanno messo fine alla guerra in Liberia: senza le donne, forse, quella pace non sarebbe arrivata. “In passato noi siamo state silenziose ma dopo essere state uccise, stuprate, deumanizzate e infettate con le malattie … la guerra ci ha insegnato che il futuro risiede nel dire no alla violenza e si alla pace”, racconta, come riporta il Council on Foreign Relations, Leymah Gbowee, il cui impegno le è valso il premio Nobel. Leymah è riuscita a mobilitare donne di ogni fede ed estrazione sociale, che hanno marciato, che si sono sedute davanti alla stanza dove gli uomini negoziavano, sbarrandone le porte fino a quando non è arrivata una prima firma. Erano stanche anche le donne del Camerun, stanche di veder ammazzati i loro bambini. Quando hanno massacrato gli studenti della scuola di Kumba, nella guerra che devasta da anni le regioni anglofone del paese e che prende di mira i luoghi dove s’insegna in quanto simbolo di una imposta francofonizzazione, loro sono scese in strada. Ma dalla strada, come in Liberia, sono arrivate a negoziare con i gruppi armati almeno la riapertura delle scuole. Prima, però, hanno usato l’ombra a cui un’antica cultura di marginalizzazione le costringe da sempre. In Camerun, entrambe la parti in conflitto “consideravano l’attivismo delle donne politicamente irrilevante; la percezione patriarcale che le donne sono naturalmente inclini alla pace ha consentito loro di organizzarsi indisturbate”, scrive l’International Crisis Group. È cosi che le donne creano alleanze, si organizzano e si guadagnano il titolo di “intermediari onesti”, negoziatrici affidabili perché capaci di dialogo, ma anche perché non fanno paura, non hanno mai gestito il potere. Nell’irrilevanza le donne imparano l’arte di usare gli stereotipi e poi sfidarli, sconfiggerli.
Ester Omam è una peacebuilder, la direttrice di un’organizzazione camerunense, Reach Out Cameroon, che ha contribuito a quella grande mobilitazione e a costruire coalizioni di donne di pace, ed oggi insegna loro a mediare: “Le donne non usano solo la testa, ma la testa e il cuore … Le donne sono mediatrici di pace perché sanno cosa dire, e quando, e a chi”, sostiene. Lei usa quella che si chiama conflict sensitive communication, il linguaggio che le ha permesso di negoziare nelle zone di guerra per portare aiuti alla popolazione stremata dal conflitto, ma anche di riaprire le scuole. Una fiducia costruita negli anni, entrando in punta di piedi nelle comunità. Sono le donne, spesso, quelle capaci di mettere in relazione le diverse parti della società, superando barriere etniche e religiose, quelle che hanno contatti diretti con i gruppi armati perché sono i loro figli, i loro fratelli, i mariti, quelli che combattono. Conoscono la cultura, i valori, gli stereotipi, appunto. Quando ad Aden, in Yemen, la coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha iniziato a scaricare armi leggere dal cielo e la violenza ha raggiunto livelli insostenibili, sono state le donne a mettere in piedi un programma di disarmo comunitario, dall’idea di una “nonna” capace di convincere gli uomini della sua famiglia e poi quelli della sua comunità, che non serve avere sempre sulle spalle un kalashnikov per essere uomini e che non stavano spaventando o minacciando i nemici, ma la loro stessa gente, quella gente che dicevano di voler proteggere e difendere.
È il contatto con le comunità a dar accesso alle donne ad informazione critiche, alla conoscenza di ferite da sanare o bisogni a cui rispondere per costruire una pace che duri. Le portano al tavolo delle trattative, ampliando i temi delle agende negoziali, come hanno fatto le donne irlandesi, cattoliche e protestanti insieme, a cui si deve l’inserimento dei diritti delle vittime, della riconciliazione, della reintegrazione dei combattenti e dell’educazione, nel Good Friday Agreement.
Sono arrivate in cima anche le donne del Camerun. Hanno portato la loro voce dalle strade fino alle Nazioni Unite. Allora, però, quando il mondo le ha viste, quando se ne è compreso il potere, loro hanno smesso di essere “irrilevanti”, si è sollevato il velo degli stereotipi e quel potere di cambiare le cose ha iniziato a fare paura. Hanno cominciato a ricevere intimidazioni, violenze, come quelle subite da Ester, aggredita, i sui figli rapiti. Nel 2022, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha tenuto un incontro sulle ritorsioni e le violenze contro le donne che partecipano ai processi di pace o sicurezza. Dal 2018, un terzo delle donne invitate a parlare al Consiglio sono state soggette a ritorsioni e intimidazioni, e nel 2022, più di 30 donne che difendono i diritti umani sono state uccise in zone di guerra. Questi crimini continuano a restare impunti. Non si sono arrese, però, in Camerun, non si è arresta Ester, come non si arrendono alla guerra le peacebuilder in altre parti del mondo, continuando ad usare le armi di pace a cui si sono addestrate nell’ombra: resilienza, ascolto, parola e pazienza.
Elena L. Pasquini è giornalista e saggista. Il suo ultimo libro è "La meccanica della pace" (People, pagg. 224, euro 16)