Afghanistan. Nilofar Bayat, quando il basket è un passaporto per la salvezza
Nilofar Bayat
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
“Non abbiamo mai disfatto le valigie / sognavamo nella lingua sbagliata”. Due versi della poetessa Warsan Shire, figlia di profughi, capace di raccontare il dolore “di chi fugge verso il confine solo quando vede che tutta la città è in fuga”. La stessa sorte è toccata a Nilofar Bayat, una tra i 2 milioni e 800mila rifugiati afghani nel mondo, arrivata in Europa ad agosto 2021, tra le attenzioni dei reporter internazionali, perché attivista per i diritti delle donne e delle persone con disabilità e capitana della nazionale di basket in carrozzina.
Proprio per queste ragioni, dopo la ripresa del potere da parte dei taleban, ha potuto scappare dall’Afghanistan, dovendo lasciare indietro tutta la sua famiglia, perché invitata a unirsi a un club molto prestigioso a Bilbao: «So di essere stata fortunata, molto più di altri miei amici e conoscenti», ma questo privilegio non significa che il dolore per questa sua decisione sia scomparso.
Nilofar, oggi, gioca per il Bidaideak Bilbao BSR, una squadra di basket per disabili nella città basca, nel Nord della Spagna. Ha trent’anni, si è laureata in Legge nella capitale afghana e nel suo confidarsi non fa sconti, perché dovrebbe dopo quello che ha passato? Quando aveva solo due anni, un razzo sparato dalle milizie taleban colpì la casa dove viveva con la sua famiglia. Da quel momento a causa delle ferite riportate alla colonna vertebrale, Nilofar ha una disabilità permanente, peraltro come suo marito, che invece è finito sopra una mina.
Anche in quel caso Nilofar non ha ceduto e ha proseguito, assecondando le sue aspirazioni di realizzazione di se stessa, e ha lottato per esse come poi avrebbe fatto per i diritti degli altri. Dopo la laurea ha, infatti, iniziato a lavorare con il Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan per 11 anni a sostegno delle donne e delle persone con disabilità.
E ora dopo 28 anni di vita a questa intensità, con cadute e ripartenze, la sua “casa si è trasformata nella bocca di uno squalo”, parafrasando ancora i versi potenti della poetessa Warsan Shire, e Nilofar che tanto vorrebbe tornarci alla sua vita di Kabul prima dell’arrivo dei taleban sa benissimo che quello squalo sta già inghiottendo tutti i suoi affetti: «Tutti i miei familiari rimasti, i miei amici e le mie compagne di squadre a Kabul sopravvivono. Il regime taleban sta riducendo il mio popolo in uno stato di povertà. Non c’è cibo per tutti e senza la possibilità di lavorare e avere dei guadagni le persone sono costrette in casa. Sono obbligati a pensare solo al loro sostentamento, tutte le conquiste e i diritti che eravamo riusciti a portare avanti negli ultimi 20 anni sono stati spazzati via. Ogni giorno una regola nuova toglie libertà, toglie speranza» ogni giorno la casa di Nilofar e di milioni di altre donne non è più casa ma “è la bocca di uno squalo”.