Afghanistan. Il grido dell'ex deputata Malalai: avere paura significa morire
Malalai Joya nel centro per rifugiati in cui Avvenire l'ha incontrata, in Spagna, mostra foto di donne uccise negli ultimi anni
Figlia, moglie, madre, amica, sorella. Nel modo in cui l’attivista Malalai Joya, 45 anni, racconta le ferite dell’Afghanistan sono riconoscibili tutti i toni dell’amore di donna. Determinato, oggi, come 25 anni fa quando nelle vesti di giovanissima delegata della città di Farah alla Costituente afghana denunciava con coraggio quasi sfrontato gli sporchi affari dei “Signori della guerra” seduti poco più avanti di lei. La donna che il mondo ha conosciuto nel 2007 quando, due anni dopo l’elezione al Parlamento dell’era “Enduring Freedom”, è stata messa alla porta della Camera del Popolo per aver chiamato “criminali” alcuni colleghi deputati, oggi, non abita più la sua terra. L’abbiamo incontrata in Spagna da rifugiata in una località che per motivi di sicurezza preferisce non venga divulgata. Racconta che non avrebbe mai voluto lasciare l’Afghanistan. Ma quando i taleban sono tornati al potere, ad agosto 2021, ha ceduto, disperata, all’insistenza della madre e di quanti preferivano saperla viva all’estero piuttosto che condannata a morte (quasi) certa in patria. Così è partita. Malalai, i taleban hanno chiuso alle donne scuole e università, hanno impedito loro di lavorare nelle Ong, ne hanno limitato la libertà di movimento. Qual è la più tremenda di queste azioni? È orrendo negare alle donne i loro diritti fondamentali. E senza dubbio privarle dell'istruzione che è la chiave per l’emancipazione. I taleban hanno paura della consapevolezza delle donne istruite perché sono quelle che, consce della propria identità, cercano un ruolo nella società. Per loro le donne devono essere usate solo per soddisfare le loro brame, badare alla casa e avere figli. Tenere sotto scacco più della metà della popolazione, quella femminile, è un modo per controllare più facilmente l’altra metà. Ma le donne dell’Afghanistan non sono più quelle di 40 anni fa. Sono più istruite e consapevoli dei propri diritti. Mai rinunceranno alla resistenza, mai si arrenderanno. Lotteranno per farsi spazio in una società di uomini che le trattano come cittadini di seconda classe, neppure esseri umani.Ma che senso hanno allora le scuole clandestine se non possono portare le donne al diploma? Al momento non c’è altra scelta che l’istruzione clandestina. Utile anche perché quella che ricevono alle elementari è limitata. I taleban insegnano per lo più questioni islamiche. Per esempio, non impartiscono lezioni di scienze. Sono stata anch’io un’insegnante clandestina nel primo emirato islamico. Di classi elementari e superiori. Ho anche tenuto corsi di alfabetizzazione. Dopo il diploma ho preferito insegnare ai corsi clandestini per le donne piuttosto che andare all’università perché in questo modo potevo incoraggiarle a continuare gli studi. I taleban possono mettere le donne al bando da scuole e università ma non potranno mai impedire loro di pensare con la propria testa. Guardi me. Ho dedicato la mia lotta per la democrazia senza avere una laurea: l’ho presa solo di recente. E adesso affronto la stessa battaglia con ancor più determinazione. L’educazione è fondamentale per aprire occhi e menti, non serve una laurea per capire cosa è giusto e cosa è sbagliato.
I taleban possono mettere le donne al bando
da scuole e università ma non potranno mai
impedire loro di pensare con la propria testa
Malalai Joya nel centro per rifugiati in cui Avvenire l'ha incontrata, in Spagna, mostra foto di donne uccise negli ultimi anni - A.N.
Percepisco che è molto arrabbiata con gli Stati Uniti...Non sono arrabbiata. Dico la verità. Gli Stati Uniti hanno cambiato l’Afghanistan per salvare il “paradiso” del terrorismo sin dalla Guerra Fredda. Hanno distrutto le nostre infrastrutture, creato i taleban, il Daesh e i “Signori della guerra”. La lotta al terrorismo era uno strumento per occupare il nostro Paese, come è successo negli ultimi 20 anni, per i propri interessi strategici, regionali, economici e politici. In nome di una pacifica riconciliazione hanno portato ancora una volta i taleban al potere dimenticando che la pace senza giustizia non ha senso. Il risultato è più spargimento di sangue, più disastri, più violazioni di diritti umani. Durante il governo degli ultimi vent’anni, però, la condizione femminile era molto migliorata. Perché è stato così facile azzerare quel progresso?Non era così: la situazione delle donne era catastrofica, proprio come lo è come oggi, soprattutto nelle zone rurali. Alcune donne hanno avuto accesso all’istruzione e al lavoro solo nelle grandi città come Kabul, Herat e Jalalabad dove erano attivi i cosiddetti progetti umanitari che giustificavano l’occupazione straniera. Il 25% dei membri del Parlamento era di sesso femminile ma per la maggior parte si trattava di un ruolo simbolico. Farkhunda Malikzada, per esempio, è stata uccisa selvaggiamente a Kabul nel 2015 a pochi chilometri dal palazzo presidenziale. Immagini com’era la situazione delle donne nelle aree remote. Stupri, violenze, lapidazioni, rapimenti: tutto ai massimi livelli.«La lotta degli Stati Uniti al terrorismo era
uno strumento per occupare il nostro Paese,
per i propri interessi strategici, economici e politici
La democrazia non è un bel fiore che gli stranieri
possono regalarci. È figlia di una lotta
instancabile, determinata, senza paura
Malalai Joya nel centro per rifugiati in cui Avvenire l'ha incontrata, in Spagna, mostra foto di donne uccise negli ultimi anni - A.N.
Qual è il suo ruolo all’estero? In fondo lei è famosa, è stata insignita del premio Anna Politkovskaya, la stampa internazionale l’ha definita come “la donna più coraggiosa dell’Afghanistan” … Il mio ruolo è aumentare la consapevolezza di quello che, davvero, è stato l’Afghanistan raccontando quello che ne hanno fatto le politiche guerrafondaie. La verità. La voce che alzo dalla mia tribuna è per chiedere a tutti gli afghani, fuori e dentro il Paese, di unirsi e lottare contro questi fondamentalisti. Molti mi chiamano, mi scrivono. Una rete sta pian piano prendendo forma. Forse è già questa democrazia.Tornerà prima o poi In Afghanistan?Fisicamente sono fuori dal mio Paese ma mentalmente ancora lì. Qui sono come in esilio. Ho dovuto lasciare l’Afghanistan per mantenere viva la mia voce che è quella sofferente di milioni di persone senza voce. Non appena la situazione me lo consentirà, tornerò. E sarò felice di riprendere la battaglia contro questi fondamentalisti accanto alla mia gente.Da dove viene la sua forza?La verità è sufficiente a darmi energia e speranza. Trovo ispirazione nelle storie degli eroi e delle eroine che hanno fatto la Storia del mio Paese. Nella vicinanza delle persone che si stringono attorno a me da tutto il mondo. Ma soprattutto nella solidarietà che ho ricevuto, e continuo a ricevere, dagli afghani oppressi. Tana gente mi ha aperto la porta delle proprie case quando ho avuto bisogno di nascondermi. Sento una grande responsabilità sulle mie spalle ma sono sicura che un giorno ce la faremo. Non importa quanto durerà la lotta. Cosa vorrebbe dire alle afghane per la Giornata internazionale della donna?Che l’8 marzo sia il giorno della lotta determinata. Restiamo unite, donne di Afghanistan, questo è il momento di essere coraggiose, di non cedere alla stanchezza. Perché, come diceva Rosa Luxemburg, “chi non si muove non si accorge delle proprie catene”.