Donne afghane. La giornalista Oranous, fuggita senza neonata e travolta dal dolore
Oranous (a sinistra) e una sua collega. all'epoca studentesse di giornalismo di Herat, durante uno stage alla Rai di Roma (2011)
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire danno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
Tornare indietro a quel preciso momento, a quella opportunità che è stata un destino equivale a tornare alle origini di una condanna: vivere da rifugiata nella fortezza Europa senza potere riassaporare casa; vivere da afghana in Germania nella costante consapevolezza di non essere compresa. Oranous mi guarda e non mi guarda come si guarderebbe un’estranea: rivederci dopo molti anni a Berlino è un tirare le somme insieme.
Nel 2011 abbiamo trascorso un mese nell’Afghanistan che credeva al sogno americano e alle riforme libertarie: lei giovanissima aspirante giornalista, io giovane reporter nei luoghi di guerra. Lei studente, io tutor: entrambe abbiamo imparato l’una dall’altra. Prima la fiducia, poi il metodo professionale. Infine, tutto questo è diventato amicizia.
A Herat, dove Oranous e altre 15 donne e un paio di giovani uomini impiantavano Radio Bayan, a servizio della missione Nato Isaf, mi facevo incantare dalle sue foto dei campi di zafferano, da certi grandangoli sui fiori violetti sfuocati in primo piano, e lei dai miei racconti di altri luoghi non meno problematici: Iraq, Palestina, Kosovo, Libia. Insieme, allenavamo la voce e la scrittura per capire come una storia in Afghanistan potesse diventare una notizia sia ad Herat che a Milano.
Ciò che le risultava inimmaginabile era il concetto di libertà di espressione e di stampa. A raccontarglielo non bastava. Si convinse solo quando, dopo alcuni mesi, il programma della Cooperazione italiana e dell’Università Cattolica la portò in tirocinio professionale nella sede romana di Rainews e nel palazzo milanese del quotidiano Avvenire. Le scappa un sorriso, adesso, pensando alla sua innocenza: “Ho imparato molte cose con voi. Ma ciò che mi colpiva di più era la facilità con cui voi colleghi pubblicavate, avevate accesso alle notizie, basandovi solo sui fatti. Non potevo credere che nessuna autorità governativa vi controllasse i testi e che, a fronte di una critica, nessuno vi minacciasse”.
Se Oranous si sorprendeva di noi, la sua presenza esotica tra i corridoi incuriosiva i colleghi: qualcuno e qualcuna diventarono suoi mentori discreti allora, e oggi sono confidenti preziosi nei momenti di difficoltà. “Ma nonostante tutta la vostra buona volontà, poco siete riusciti a fare nei confronti delle barriere di viaggio, dei visti, dei trasferimenti, quando i taleban, a poco a poco, hanno riguadagnato terreno”.
Il sorriso di Oranous si fa amaro e sulla sua bocca si affaccia a più riprese la parola inglese “bitter”. È quella che utilizza più spesso: sono amare le memorie, è amara la lontananza da casa, sono amare le delusioni nel suo percorso migratorio, era amara la sua vita in Afghanistan, dal momento del suo rientro dall’Italia in poi. E, più di tutto, è amara la sua vita qui, in Europa.
“Tutto è precipitato dopo gli attentati a cui sono stata sottoposta a Herat nel 2014, proprio perché lavoravo come giornalista e voce di Radio Bayan: quando mio padre è stato ferito, al punto che è stato fatto saltare in aria e ha perso una gamba, lì ho capito che il gioco per la libertà si faceva veramente duro”.
Oranous si nasconde in casa per un anno e trova una soluzione professionale collaborando on line con l’Afghan journalists Safety Committee. Ma un giornalista non è un topo da biblioteca e Oranous smania: non può più restare a Herat. Andare via è la soluzione più logica sul tavolo. Grazie a un centro di protezione per giornalisti, ottiene il ricollocamento in Finlandia nel 2017 e accetta. Ma c’è un enorme ma. “Non avrei mai immaginato che questa soluzione non potesse comprendere le mie due bambine. Ho accettato per salvare in futuro tutta la famiglia. Ma è stato terribile”.
Oranous si è sentita una madre degenere ed è entrata in depressione progressivamente, dopo la decisione di lasciare la Finlandia per la Germania dove è presente una parte della comunità di espatriati afghani da Herat: “Vivere lontana da mio marito e dalle mie figlie è stato dolorosissimo. Ricordo che cercavo di togliermi il latte dal seno, che era sempre copioso, dopo avere lasciato la mia piccola di sei mesi in Afghanistan. Per tutti gli anni successivi fino al 2021 riuscivo a calmare il mio dolore e il senso di colpa solo dopo avere tramutato il pianto in singhiozzi per molti minuti. Ricordo ancora quando un giorno sono riuscita a vedere mia figlia – ormai di tre anni - on line: aveva gli occhi pieni di lacrime mentre mi guardava muta attraverso lo schermo. Chiusa la chiamata, mi sono ferita fino a perdere conoscenza. Mi sono risvegliata in ospedale”.
Gli anni di Oranous in Germania sono anni di solitudine e sperdimento, di perdita d’identità e delusione per le promesse di un mondo che le aveva fatto credere di essere più umano e accogliente. Sono anni di notti insonni, per due mesi, dopo il ricovero in ospedale. Anni di sedativi per provare meno dolore. Si morde le labbra e questa è la ferita che la depressione le ha lasciato sul volto contratto, adesso, mentre mi parla: “Avevo degli amici a Berlino ma l’ufficio immigrazione mi inviò in villaggi remoti tra le foreste tedesche. Ho vissuto per un anno in questi centri, senza accesso ad aree commerciali o a servizi sanitari. In tutto, ho girato dieci campi in continui trasferimenti indicati dagli uffici competenti, vivendo con persone di altre nazionalità, in condizioni disastrose”.
Il chiodo fisso di Oranous è il ricongiungimento familiare: in queste condizioni, il giornalismo non è più una priorità. “La Germania ha distrutto la mia anima e il mio equilibrio psicologico negandomi per tutti questi anni il ricongiungimento. La cosa più triste è che mi è stato concesso solo dopo che i taleban hanno riconquistato Kabul. Era necessario un disastro per capire che una madre non può stare lontana da propri figli?”.
Il 14 novembre 2021 Oranous si reca all’aeroporto di Berlino. Vede la piccola, che aveva lasciato a sei mesi, correre verso di lei al terminale, dopo i controlli dell’ufficio immigrazione. Riabbraccia il marito dopo tre anni di lontananza. “Ero arrivata in aeroporto sei ore prima. Non potevo crederci. È stato il giorno più bello della mia vita”.
Dopo dodici anni, Oranous maledice i taleban e, in certi, giorni, anche il giornalismo e la Germania.