Chiesa

Volti di speranza. Suor Consuelo: la fede, l'arte e l'amore per i poveri al Parco Verde

Maurizio Patriciello giovedì 24 ottobre 2024

Una veduta di Caivano

Il vescovo chiede di parlarmi. Non riesco a immaginare che cosa potrà mai volere. «Mi ha contattato la madre generale delle suore di una congregazione spagnola, le “Figlie di Gesù”. Sarebbero contente di aprire una casa nella nostra diocesi. Ho accolto la richiesta ma voglio che vengano da te, al Parco Verde». Non mi sembra vero. Le attendiamo con ansia. Arrivano in quattro, due italiane, più giovani, e due spagnole. Suor Consuelo Fresneda sarà la superiora. La nostra canonica, messa a disposizione, è piccola, ma loro non si lamentano. Consuelo sceglie per sé lo spazio più angusto, quello meno comodo, una sorta di corridoio di passaggio.

Un vecchio armadio farà da paravento. Non indossano l’abito religioso ma si vede da lontano che sono donne consacrate a Dio e al prossimo. La fondatrice, Madre Candida, basca, morta nel 1912, canonizzata nell’anno 2010, seppure analfabeta, comprese, a suo tempo, l’importanza dell’educazione dei giovani, per questo volle che le sue suore si consacrassero a questa opera benemerita.

Un’altra suora, Maria Antonia Bandrés y Elòsegui, morta nel 1919 a soli 21 anni, è beata. Per lei nutro una grande devozione. Il miracolo che l’ha portata agli onori degli altari è davvero singolare. Nel 1961, un suo cugino, Antonio Navarro, a Pizzarra, una cittadina a sud della Spagna, scivola sotto le ruote del treno diretto a Malaga. Avrebbe dovuto essere stritolato. Disperato, all’ultimo momento, invoca la religiosa che in famiglia già godeva di fama di santità: «Antonita de mea alma!». Immediatamente, nel buio pesto, tra gli assi delle ruote, vede una sorta di trave di ferro illuminarsi. L’afferra. Quando il treno passa oltre, la gente, che, inorridita, si aspetta di imbattersi in un corpo lacerato, vede rialzarsi, invece, un uomo quasi del tutto nudo con appena qualche escoriazione. Incredulità. Euforia. Si grida al miracolo. Nei momenti difficili mi porto davanti al dipinto che la ritrae, la fisso e le dico: «Antonita mia cara, tu che sai aiutare le persone in situazioni ben più complicate, non mi verrai in soccorso?».

Siamo diventati amici. La invoco spesso. Pregatela anche voi. Saverio Gaeta, nel suo libro “Miracoli” racconta anche questo prodigio. Consuelo, dicevamo. Viene dall’Andalusia, è una donna ancora giovane, in ottima salute. Laureata nel nostro Paese, distinta, colta, distaccata, parla benissimo l’italiano. L’italiano, appunto, non il napoletano. E in un quartiere popolare di Caivano, una suora che desidera relazionarsi con le persone anziane, i malati, i bambini, le ragazzine, deve “per forza” imparare la lingua con la quale esprimono i concetti e le emozioni più profonde. Non solo, deve essere in grado di decifrare i gesti, i motteggi, i movimenti con cui i napoletani accompagnano il loro pittoresco eloquio. Consuelo lo sa e, umilmente, accetta di imparare. Sovente, con risvolti comici. Come quella volta che, di ritorno da una visita a una famiglia povera e problematica, viene a cercarmi: «Maurizio, sono stata da Maria, ma non ho capito niente. Lei, mentre parla, si mette la mano in faccia con le dita allargate e, piagnucola: «“Suora Consuela” voi capite? Mio figlio…come si fa? Come si fa? Ci sono i bambini…». Per non mortificare la signora, Consuelo tace, fa finta di capire, ma quella mano con cui si copre il volto proprio non riesce a interpetrarla. L’ascolto e scoppio a ridere, nel vederla ripetere goffamente il gesto incomprensibile.

«Consuelo, il figlio di Maria è detenuto, si trova nel carcere di Poggioreale, un nome che lei non pronuncerebbe mai. Le dita allargate della sua mano, rappresentano le grate». Scuote il capo, divertita. È una donna povera, poverissima, Consuelo, ma senza ostentazione. Il suo guardaroba è striminzito ma sempre pulito, sistemato, profumato. Ogni anno, in estate, fa ritorno in famiglia per andare a trovare l’unico parente che le è rimasto, il marito di sua sorella morta di cancro. Con noi si trova bene. Con i poveri ha una pazienza e una bontà infinite. Prega, Consuelo, e tanto. Si rannicchia in un angolo della chiesa, abbassa la testa in grembo e sprofonda in un dialogo muto con Dio. Per ore. È un’artista. Dipinge. Disegna cartelloni, bigliettini di auguri, segnalibri per la catechesi, le feste con i bambini. Il tocco delle sue mani fatate si vede anche nei vasi di fiori sull’Altare.

Ogni fiore al suo posto, ogni colore calcolato con attenzione. Scherzando, mentre sta ultimando la confezione di fiori bianchi e gialli che dovrà adornare il tabernacolo, mi faccio avanti con un gigantesco gladiolo rosso mezzo appassito a fingo di volerlo inserire nel vaso. Un urlo mi raggiunge. Risate. Ha il gusto del bello. I nostri santini baroccheggianti non le piacciono. È sempre di buon umore. Nessuno l’ha mai vista arrabbiata o scoraggiata. Mi vuole un gran bene, e anch’io ho imparato a volerle bene. Donna tollerante, concreta, punta all’essenziale. «Maurizio, quando morirò – mi diceva -, non darti pena di niente. Chiudimi in un sacco e gettami in mare. Ci penseranno i pesci…». «Sei pazza? Mi arresterebbero per occultamento di cadavere» le rispondevo, divertito. «Allora, ricordati, che sulla mia bara voglio solo un mazzo di garofani rossi». Il garofano rosso, nostalgico ricordo della sua bella terra andalusa. Un giorno mi viene incontro con il volto triste. «Consuelo, che c’è?». Trattenendo le lacrime: «Mio cognato… un infarto… stamattina. Ormai non ho più nessuno». Mi si stringe il cuore. «No, Consuelo, non dirlo, non è vero. Ci siamo noi, lo sai…» In Spagna, da quel giorno, non volle tornare più. Non lo diceva, ma in cuor suo, sono certo che avrebbe desiderato rimanere a Caivano. Invece, qualche anno dopo: «Maurizio, debbo parlarti…».

Non disse altro. Non so per quale misteriosa intuizione, compresi subito quello che mi avrebbe detto. Gridai: «No, non voglio… non devi, non puoi andartene. Non puoi farci questo, non puoi lasciarci…». Col volto rassegnato e triste: «Maurizio, lo sai, è la nostra vita, le superiori hanno deciso così. Bisogna obbedire». Obbedire. Nessuno saprà dire mai quanto costi a una persona consacrata rinunciare ai propri progetti, ai propri desideri, alle proprie aspirazioni, alle persone care, per tentare di fare la volontà di Dio. Il distacco fu doloroso. La festa di addio, insopportabilmente penosa. In parrocchia, le donne – più coraggiose – piangevano. I maschi – codardi – ingoiavano le lacrime e si rischiaravano la voce. Foto, abbracci, dolci, carezze, i suoi disegni alle pareti, promesse di rivederci, progetti di viaggi. Il cuore al buio. In Spagna si ammalò. Venivamo informati dell’andamento della malattia. Facevo di tutto per evitare di essere presente alle videochiamate che le facevano dalla parrocchia. Vederla invecchiata, sofferente, sulla sedia a rotelle mi faceva troppo male. Lo so, sono stato vigliacco ed egoista. L’ultima volta, le sue care consorelle mi tesero un tranello. Non mi fu possibile sgaiattolare via. Mi feci forza: «Consuelo, come stai? Vengo a trovarti. Appena posso, parto. Promesso», mentìì. «No, non vieni, lo so che non vieni…».

Aveva ragione. Persi tempo, rimandavo. Cercavo mille scuse. La verità era una sola e sono certo che lei, come me, la conoscesse. Non andai. Si aggravò. Volò via. Sensi di colpa. Rimpianti. Rimorsi. Richieste di perdono. Da Malaga ci arrivavano le foto e i video del funerale. A Caivano, nella parrocchia che ha tanto amato e servito, ci demmo appuntamento per la celebrazione della Messa. Sull’Altare tanti, tanti garofani rossi.