Chiesa

La Giornata. In preghiera per le vocazioni, sotto il manto di san Giuseppe

Diego Andreatta, Marina Lomunno, Igor Traboni sabato 24 aprile 2021

Ordinazione sacerdotale nel Duomo di Milano in un'immagine d'archivio

Questa domenica, 25 aprile, si celebra la 58ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. A istituirla fu Paolo VI nel 1964. L’allora Sacra Congregazione per i Seminari e le Università aveva suggerito il titolo “Giornata mondiale per le vocazioni”, ma papa Montini volle che venisse specificato “di preghiera”, a indicare ciò a cui è in primo luogo chiamato il popolo di Dio, oggi e non solo, perché Dio mandi operai nella sua messe.

Papa Francesco ha firmato un messaggio lo scorso 19 marzo in cui, ricordando come l’8 dicembre 2020 sia iniziato un Anno speciale dedicato a san Giuseppe, pone la Giornata odierna sotto il manto del padre putativo di Gesù e patrono della Chiesa universale. «San Giuseppe ci suggerisce tre parole-chiave per la vocazione di ciascuno» scrive Bergoglio.

La prima è «sogno» (San Giuseppe: il sogno della vocazione è anche il titolo del messaggio) perché «i sogni portarono Giuseppe dentro avventure che mai avrebbe immaginato» e «così accade nella vocazione».

La seconda parola è «servizio», perché «dai Vangeli emerge come egli visse in tutto per gli altri e mai per sé stesso».

La terza parola è «fedeltà», perché Giuseppe «nel silenzio operoso di ogni giorno persevera nell’adesione a Dio e ai suoi piani», «tutto coltiva nella pazienza».

«Mi piace pensare allora a san Giuseppe, custode di Gesù e della Chiesa, come custode delle vocazioni» scrive sempre il Pontefice. Per l’occasione si sono tenute iniziative di preghiera in varie diocesi italiane. L’Ufficio della Cei per la pastorale delle vocazioni ha preparato fin da settembre materiale per l’animazione, disponibile sul sito vocazioni.chiesacattolica.it

Fare e tacere, come il Murialdo​

(Marina Lomunno, Torino) Don Bartolomeo Rolfo, giuseppino del Murialdo, per tutti don Berto, è nato 85 anni fa a Pocapaglia, piccolo centro del cuneese, e ha vissuto la sua lunga vita sacerdotale incarnando il motto del fondatore della sua congregazione, «fare e tacere». Per questo è restio a raccontarsi: lo abbiamo convinto solo perché siamo nell’anno speciale che papa Francesco dedica al padre terreno di Gesù. San Leonardo Murialdo, santo sociale torinese, fondò la congregazione di San Giuseppe il 19 marzo 1873 per dare futuro ai giovani poveri proprio «ponendola sotto la protezione dello sposo di Maria, educatore e uomo del silenzio». «La Lettera apostolica Patris corde – prosegue don Rolfo – me la sono divorata perché ho ritrovato molti aspetti della mia vita religiosa trascorsa accanto ai giovani». Entrato in prima media nel seminario dei Giuseppini a Santo Stefano Belbo, sostenuto dal suo parroco («la mia era una famiglia modesta, c’era bisogno di braccia») a 60 anni è partito missionario in Albania, all’indomani della caduta del regime di Enver Hoxha, dove i murialdini hanno fondato a Fier una scuola professionale modello, oratorio e parrocchia.

Don Rolfo dopo il noviziato e gli anni della teologia viene ordinato nel 1964 – «sono un prete del Concilio» dice – e dopo la laurea in pedagogia su Teilhard de Chardin all’Università di Torino e la specializzazione in psicologia sulle «Fughe dei minorenni» si dedica per molti anni all’insegnamento. «Sono sempre vissuto con e per i giovani nella scuola tranne la parentesi di parroco», otto anni nel santuario torinese di Nostra Signora della Salute, dove si venerano le spoglie di san Leonardo Murialdo. «Ordinato prete, se i superiori mi avessero chiesto di andare in missione avrei accettato. L’occasione è arrivata con l’apertura della nostra opera a Fier: un’altra opportunità per stare accanto ai giovani più fragili, per dare loro un mestiere, per fermare l’emigrazione che impoverisce il Paese». In Albania è ancora san Giuseppe a ispirare don Rolfo nei momenti difficili: «San Giuseppe è pieno di dubbi, su cosa e come fare. Ecco perché si affida a Dio nel silenzio: sarà poi il silenzio a parlare con i fatti. Così cercavo di fare con i miei allievi, in parrocchia e anche a Fier».

Don Rolfo da un anno è rientrato in Italia e vive nella comunità murialdina di Pinerolo ma l’Albania è sempre nel suo cuore: «Un giorno a Fier arriva una mia allieva, con una famiglia disastrata alle spalle, che mi aveva procurato molti problemi: mi butta ai piedi lo zainetto con i libri: “non vengo più a scuola”. La stringo forte alle spalle e le grido: “Rimetti i libri nello zaino e vai in classe”. Mi ha ascoltato e ha terminato gli studi: l’orologio rosso che ho qui sul tavolo a Pinerolo me l’ha regalato il giorno che sono partito. Oggi a 85 anni comprendo cos’è la Provvidenza: seguendo Dio scopri che, se ti lasci guidare, Lui ti ama e ti vuole sempre bene».

Diventare prete a sessant'anni​

(Igor Traboni, Avezzano) A 60 anni vive con la trepidazione di un ragazzo i pochi mesi che lo separano dall’ordinazione sacerdotale, spendendosi intanto come diacono in una piccola parrocchia della Marsica abruzzese, a Tagliacozzo, in diocesi di Avezzano. Quella di Angelo Di Bucchianico è infatti una vocazione che il diretto interessato descrive così: «Una vocazione adulta, però nata da un seme piantato tanto tempo fa e che è arrivato a maturazione in questi ultimi quattro anni, dopo un lungo cammino di ricerca».

A metà degli anni ’80 Di Bucchianico inizia un’esperienza con i frati minori conventuali, «a cui devo tutta la formazione – dice – non solo teologica e spiritale, ma anche umana, stando a contatto con Francesco d’Assisi». «Poi però questo cammino, un po’ perché i progetti del Signore sono imprevedibili e un po’ per la mia esperienza umana, non dico che si è interrotto, ma mi ha portato a mettere in discussione i motivi di quella scelta». Dopo aver lasciato i conventuali, Di Bucchianico torna così nella sua Lanciano. È l’Anno santo del 2000 e inizia subito un’altra esperienza: «Quella molto forte nel campo del lavoro, che ha rifondato la mia scelta vocazionale, attraverso la bellezza del condividere la fatica con altre persone, prima come operaio edile e poi metalmeccanico».

Ma, continua Di Bucchianico, fra tutte le esperienze vissute, «c’è stato come un roveto ardente dove ho sentito la voce del Signore: la malattia dei miei genitori, il loro amarsi anche nella malattia, rimasti marito e moglie innamorati fino alla fine. Dal loro modo di amarsi ho iniziato a comprendere cosa voleva dire davvero donare la vita per gli altri». Per dieci anni è rimasto in fabbrica, sperimentando anche la durezza dei contratti a termine e della disoccupazione. «Mi ha molto aiutato il sentirmi nella Chiesa – racconta – con la bellezza del laicato anche nelle piccole cose, e quanto più la scoprivo tanto più diventava forte il desiderio di dire un sì rinnovato e totale a Gesù che chiama, e di consegnarsi, perché non si può fare da soli».

Così, ecco che sulla sua strada tornano i francescani: «Mi dilettavo con il canto lirico e con il mio coro dovevamo fare “Il barbiere di Siviglia” a Tagliacozzo. Chiesi ospitalità per i giorni dello spettacolo ai frati, miei vecchi compagni di studi, e da lì si è riaperto un po’ tutto», grazie anche a figure di accompagnamento spirituale, fino a riprendere il percorso per l’ordinazione e a trovare accoglienza dal vescovo di Avezzano, Pietro Santoro. «Certo – conclude il diacono Di Bucchianico – ci sono stati momenti in cui ho lottato, in cui mi dicevo e mi dicevano “ma chi te lo fa fare di rimetterti in gioco a 56 anni?” Ma dentro c’era un fuoco che non potevo spegnere».

Dalla Bolivia alle Alpi, si è sempre missionari​

(Diego Andreatta, Trento) Si starebbe a lungo, come al fuoco di bivacco, ad ascoltare don Angelo Gonzo, 62 anni, vent’anni dei quali missionario in Bolivia. Tornato a fare il parroco e l’assistente scout, nel racconto della sua vocazione scoppiettano tre parole: avventura, periferie e testimoni. ​Ha solo 12 anni quando il primo testimone, padre Italo Piffer, lo affascina con la semplicità evangelica, avviandolo agli studi nei comboniani prima a Muralta e poi a Padova in una comunità dinamica, schierata nel sociale: in quegli “anni di piombo” Angelo frequenta anche i “comitati di base”, mentre legge delle delle comunità ecclesiali di base latinoamericane. Comincia la teologia dai comboniani a Napoli, altra periferia difficile, poi a Firenze in un anno di crisi che lo vede uscire, assieme ad altri nove seminaristi, dal seminario comboniano.

A Trento ritrova il fermento conciliare, partecipa ai primi passi della Lega Missionaria Studenti con don Valentino Felicetti, un altro testimone, completa gli studi nel seminario di Trento dove i formatori valorizzano la sua carica umana e spirituale.​Sull’esempio del prete di strada don Valerio Piffer, sente di doversi donare a chi fa più fatica, gli empobrecidos, gli impoveriti vicini e lontani. Ci riesce da cappellano nel rione più periferico di Trento, San Carlo, dove a 26 anni si trova a sostituire per un anno il parroco malato, e poi nel quartiere più borghese, la Bolghera, dove scopre le provocazioni esigenti del gruppo missionario. Quando finisce a fare il parroco nella valle più dimenticata del Trentino, il Vanoi, sperimenta il valore della comunità e quello stile di coraggio evangelico (a Capodanno si ricorda una marcia della pace sotto la neve) e due esperienze in missione con i giovani – estate del 1991 e del 1993 – lo immergono nei bisogni latinoamericani.

Padre Mariano Manzana, allora direttore del Centro Missionario e oggi vescovo in Brasile, lo convince facilmente a partire come fidei donum per la Bolivia dove la carica spirituale e la tempra umana di don Angelo si fanno apprezzare: tra viaggi sulle alture boliviane e impegni di coordinamento pastorale.​Rientrato da due anni, parroco a Civezzano, rilancia un modello di Chiesa in uscita, non legato a schemi passati, ma aperto, in uno spirito di libertà evangelica: «Qui siamo tutti un po’ troppo parrocchialisti, invece guardiamo oltre i confini dei nostri campanili, a quanto si muove in tutta la Chiesa». Collabora col Centro Missionario per la spiritualità missionaria, segue il Movimento adulti scout: col fazzolettone al collo e la chitarra in mano si gusta l’avventura del Vangelo. E la vocazione si è rafforzata? «Grazie a Dio direi di sì. Devo molto ai testimoni che mi hanno accompagnato, come dice il tema della Giornata delle vocazioni di oggi».​