E’ un Verdone che non t’aspetti, quello che riemerge dal grande successo di
Io, loro e Lara (oltre 16 milioni di incasso sono una cifra che non può non far riflettere). E non te lo aspetti per almeno tre motivi. Primo per la scelta coraggiosa di vestire i panni di un sacerdote anni luce lontano dalle comiche caratterizzazioni dei suoi primi film. Secondo perché dimostra, in questa intervista, che i motivi per cui ha voluto portare sul grande schermo il suo don Carlo vanno ben al di là di una bella intuizione narrativa. E terzo perché è per lo meno inconsueto il luogo in cui accetta di rispondere alle domande di
Avvenire: il seminario San Pietro Martire della diocesi di Milano in quel di Seveso, dove qualche giorno fa il celebre attore e regista ha incontrato i giovani candidati al sacerdozio, consegnandosi senza rete ai loro quesiti e commenti. «A dire il vero – confida a margine dell’incontro – io stesso non m’aspettavo che il pubblico rispondesse in questo modo. Ma evidentemente non siamo solo gente da curva, come qualcuno vuol farci credere. E questo fa ben sperare».
E dunque, perché lei ha scelto di guardare alla realtà italiana attraverso gli occhi di un sacerdote?Perché non ne potevo più di mettere in scena i soliti personaggi borghesi in crisi, con mogli e amanti. Allora, per rappresentare un disastro che è davanti agli occhi di tutti, e cioè il dissesto familiare, etico e delle relazioni interpersonali, ho pensato che lo sguardo giusto fosse quello di una persona per bene. Di qui la scelta della figura di un sacerdote, che tra l’altro è stata una bella sfida anche dal punto di vista narrativo, poiché trasferire un sacerdote all’interno di una commedia è sempre abbastanza complicato. Ma ormai penso di avere l’età giusta per fare queste cose.
Insomma, don Carlo come una specie di monitor.Sì, diventa un monitor per osservare il mosaico impazzito della realtà italiana con le sue fobìe, i suoi esaurimenti nervosi, la sua perdita di etica. Tuttavia non ho creato un personaggio da santino, poiché anche lui ha una sua forma di difficoltà. Sta vivendo una crisi vocazionale e vorrebbe parlarne con qualcuno. Ma nessuno lo ascolta, anzi, ognuno gli vomita addosso i propri problemi. E così emerge l’egoismo del nostro mondo occidentale che ha puntato quasi tutto sulle cose materiali e spesso si dimentica dello spirito e dei sentimenti.
Una volta si diceva che il parroco e il maresciallo dei carabinieri erano i pilastri dell’Italia. E oggi c’è ancora bisogno dei sacerdoti?Più che mai. Anche se è una figura che si va completamente ridisegnando, oggi secondo me il sacerdote conta. Tra i motivi che mi hanno portato a fare il film c’è anche l’aver ascoltato alcuni giovani preti di periferia, che svolgono la loro opera in zone difficili e che hanno alle spalle anche esperienze missionarie in Africa. Sono veramente in gamba, non parlano dal pulpito e sanno stare in mezzo ai fedeli, condividendo i problemi di tutti e dicendo le cose giuste al momento giusto.
E il suo don Carlo si ispira a questi sacerdoti?Di sicuro è uno che non si tira indietro. A un certo punto, mentre è a cena con un sacerdote amico, si sente suggerire da quest’ultimo: "Carlo, e se il Signore ti stesse aspettando proprio dentro i rapporti umani?". Ecco, qui c’è uno dei messaggi che ho voluto lanciare. Certo, io non sono Bergman, la mia è solo una commedia, ma penso che se i messaggi sono positivi, attraverso la commedia possono giungere a tanta gente.
E ai sacerdoti veri il messaggio è arrivato? Che riscontri ha avuto da parte loro?Nelle ultime settimane un paio di volte per strada mi sono sentito battere sulla spalla: "
Bella a’ Ca’". Pensavo fossero i soliti tifosi della Roma che volevano chiedermi "
che famo domenica co’ ’a Juve?". E invece erano preti. Abbiamo iniziato a parlare del film e loro erano contenti di come li avevo rappresentati. Recentemente mi ha scritto una bellissima lettera anche il cardinale Ersilio Tonini. E probabilmente il 10 marzo sarò a Ravenna per un incontro con i sacerdoti. Insomma, la risposta è stata buona.
Ma al di là del film qual è la sua figura ideale di prete?L’ho detto anche ai seminaristi che me lo chiedevano. Oggi io vedo tanta infelicità intorno a noi. Abbiamo giovani depressi, adulti che non sono cresciuti, abbiamo solitudine e materialismo. Per cui davvero i sacerdoti hanno una grande opportunità. Io non voglio insegnare il mestiere a nessuno, non ne avrei tra l’altro l’autorevolezza. Ma per me il sacerdote è soprattutto un medico dell’anima, uno che ti aiuta a chiarirti le idee e ti offre una ciambella di salvataggio. Non si può delegare tutto allo psicanalista, che magari ti fa iniziare un percorso di cinque anni che non servirà quasi a niente. Ecco, per me il sacerdote è un uomo vicino alla gente.
Lei ha un sacerdote di riferimento?No, ma in molti casi vorrei averlo. Ho un paio di sacerdoti amici, con i quali davvero parlo di tutto, molto liberamente e la trovo una cosa fantastica.
Non l’ha mai avuto?Quello che si definisce un vero e proprio padre spirituale no. Ma mi ricordo che da ragazzino, quando abitavo in via Giulia, al centro di Roma, spesso giocavo a pallone sul terrazzo con mio fratello. A distanza di un centinaio di metri c’era un altro terrazzo, dove andava a passeggiare un giovane sacerdote. Era un pallottino polacco, don Teodoro. Noi lo salutavamo e lui rispondeva. Un giorno si presentò a casa nostra e da allora diventammo amici. Conservo ancora un carteggio di oltre 40 lettere che ci scambiammo quando lui fu trasferito negli Stati Uniti. Io gli parlavo della mia vita, anche dei miei problemi, e aveva sempre una parola di aiuto, di conforto, di incoraggiamento. Per me questo rapporto è stato molto importante.
Per interpretare il suo don Carlo si è ricordato anche di questi esempi?Diciamo che il prete del film ce l’avevo dentro. Sapevo che avrei dovuto trattarlo con senso della misura, come una persona per bene che ha una forte motivazione e che perciò sbalordisce di fronte a certe cose. Dunque un prete completamente diverso dal don Alfio di
Un sacco bello o dal falso sacerdote di
Acqua e sapone o da quello logorroico di
Viaggi di nozze. Quelle erano caratterizzazioni macchiettistiche o personaggi che nascevano dal teatro. Oggi sono diverso, sono cresciuto e ho voluto fare una cosa diversa.
Metterebbe il prete di «Io, loro e Lara» nella galleria dei sacerdoti cinematografici interpretati da altri grandi comici?Con tutto il rispetto, no. Preti come il don Camillo di Fernandel, o come quelli di Alberto Sordi e Marcello Mastroianni vengono ricordati perché sono più importanti gli attori che i personaggi rappresentati. Io qua veramente mi sono spogliato di tutte le mie caratteristiche comiche e ho cercato di agire con estrema naturalezza, in punta di fioretto, non forzando mai nulla e delegando al personaggio di mio fratello le battute che fanno ridere. Inoltre in qualche modo ho affrontato un tema, e cioè quello del disastro che vediamo oggi.
A proposito di questo tema, qualcuno ha detto che il suo film è senza speranza, perché don Carlo alla fine non risolve nulla e tutti i personaggi restano com’erano.Non sono d’accordo. Aver riunito sul divano della scena finale persone che prima si detestavano è un grande risultato. Lì c’è una famiglia e la famiglia è oggi l’unico baluardo contro lo sfascio totale. Io sono separato, ma ho sempre cercato di mantenere un rapporto sia con mia moglie che con i miei due figli. E quando mi sono accorto che i ragazzi stavano diventando degli estranei, non ho esitato a fermarmi per stare con loro e recuperare un rapporto. Il messaggio di speranza del film è proprio qui.