Ucraina. L’arcivescovo Shevchuk: la mia preghiera tra le lacrime della gente
L'arcivescovo maggiore di Kiev Svjatoslav Shevchuk, della Chiesa greco-cattolica ucraina
Prima di essere eletto 11 anni fa arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina a Kiev, Svjatoslav Shevchuk, svolgeva il suo ministero a Buenos Aires: «Non avrei mai immaginato di essere pastore di una Chiesa nel contesto di una guerra così crudele». La sua voce arriva in streaming dalla capitale ucraina, nell’ufficio di curia tra icone e crocifissi. E scuote i delegati delle diocesi italiane a Cagliari per il convegno Cei di Pastorale della Salute. L’intuizione di chiamarlo a testimoniare cosa vuol dire stare accanto alla gente in ogni situazione, anche la più estrema, si rivela straordinariamente efficace, tanto la testimonianza che il 52enne arcivescovo rende è commossa, potente, da uomo di fede. Ad ascoltarlo anche l’arcivescovo di Cagliari e vicepresidente Cei Giuseppe Baturi e il presidente di Caritas Italiana e arcivescovo di Gorizia Carlo Maria Redaelli, insieme al direttore dell’Ufficio Cei don Massimo Angelelli, che ha costruito questo incontro (virtuale ma vivissimo) con tenacia e pazienza.
L'arcivescovo Shevchuk interviene in collegamento da Kiev al convegno Cei. Ad ascoltarlo, da desttra, don Massimo Angelelli e gli arcivescovi Redaelli e Baturi - Foto Carla Picciau
«Nei giorni scorsi – racconta Shevchuk – abbiamo festeggiato la fine della seconda Guerra mondiale anche in Ucraina: non fu però una vittoria nella guerra ma sulla guerra. Anche oggi quello che va vinto è lo spirito stesso della guerra, che ci sta mostrando qualcosa di impensabile». Il pensiero corre al 24 febbraio, al risveglio con «gli elicotteri russi attorno alla cattedrale, che lanciavano missili su una città pacifica». Centinaia di persone si riversarono verso la chiesa madre cercando rifugio nei sotterranei. Da allora nei giorni più cupi degli attacchi sulla capitale le porte della cattedrale sono rimaste sempre aperte per chi fugge dal pericolo. «Come comunità cristiana abbiamo avvertito il dovere primario di salvare vite umane, prodigandoci in ogni modo per strappare dalle macerie i feriti, soccorrendo chi non ha più nulla». Perché la guerra «sta rivelando chi è davvero ognuno di noi: tutte le maschere cadono in un momento».
Essere ancora vivo per l’arcivescovo è già un grande segno di affetto dal Cielo: «Grazie a Dio siamo sopravvissuti, sappiamo che Kiev era il bersaglio primario della prima offensiva, l’esercito russo pensava di prendere la capitale in tre giorni e hanno scagliato tutta la loro micidiale forza sulla capitale e i suoi dintorni. Parlare con voi a distanza dopo 78 giorni di guerra, disponendo ancora di luce e collegamento Internet, mi pare un miracolo. Non pensavo di poter scampare, i carri armati sono arrivati fino a 50 chilometri dalla cattedrale: in quel momento credevo che fossimo perduti, intrappolati nella morsa dell’offensiva. Ci restava solo di pregare, incoraggiare la gente con la Parola di Dio, dire a tutti che è il Signore la nostra unica speranza».
La voce di Shevchuk si spezza, gli occhi gonfi di lacrime. In un silenzio sospeso, insieme ai rappresentanti di oltre cento diocesi, Baturi e Redaelli sono visibilmente commossi. «78 giorni di guerra – riprende il pastore dei greco-cattolici ucraini in ottimo italiano – sono stati 78 giorni di lacrime e di sangue della nostra gente. Ho visitato territori occupati dai russi che poi li hanno abbandonati: ora lì c’è un deserto, con città e villaggi dove settimane di assedio e di bombardamenti hanno raso al suolo complessi residenziali lasciando sotto le macerie centinaia di civili, con i militari impossibilitati a soccorrerli per l’infuriare dei combattimenti. Nessuno è sopravvissuto».
Shevchuk ha negli occhi immagini che fatica a raccontare. «Si è parlato molto delle fosse comuni nelle città satellite di Kiev. Ho visto centinaia di cadaveri con le mani legate e un foro nella nuca. Nella vita di un uomo è impossibile immaginare di dover vedere queste scene. Ho pregato su quei corpi, potevo essere anch’io tra loro, nelle liste delle persone da uccidere c’era anche il mio nome». Un applauso permette all’arcivescovo di prendere fiato, soffocato com’è dal pianto. Si sente tra fratelli, sa di poter essere compreso: I confratelli arcivescovi Baturi e Redaelli intervengono con parole di affetto e di incoraggiamento. «Ringrazio il Signore di essere qui a dialogare con voi – riprende Shevchuk –, considero un dono del Cielo potervi raccontare la nostra storia». Ora «i combattimenti più feroci si svolgono nell’Est e nel Sud dell’Ucraina. Ho contatti continui con i nostri vescovi e sacerdoti nelle città sotto il fuoco, restano con la gente per alleviare le sue sofferenze. La presenza della Chiesa greco-cattolica e latina in città distrutte per due terzi dà l’immagine dell’ospedale da campo di cui ci parla il Papa. Facciamo tutto il possibile per mandare viveri e far arrivare acqua potabile e pane».
Per resistere e sperare «anzitutto bisogna avere fede: non sai cosa succederà domani, ma devi restare, e allora bisogna affidarsi completamente a Dio». Incoraggiato dalla platea ecclesiale che lo ascolta, Shevchuk confida la sua preghiera: «Signore, tu mi hai messo qui, non l’ho scelto io: mi hai preso dall’Argentina per essere proprio qui, proprio adesso. Sono responsabile di tanta gente. Allora io mi fido di te, se mi hai chiamato sono nelle tue mani. E con la fiducia dammi il coraggio. Non so cosa succederà domani, lo sa solo Dio: io mi fido della saggezza divina. E devo dire che Dio provvede e ci aiuta».
Inevitabile chiedere di cosa può avere bisogno: «Ho visto famiglie finite sotto le bombe, con madri e figli mutilati. Li abbiamo soccorsi come potevamo, ma serviranno protesi, cure specialistiche, riabilitazione, per anni...». Tra i presenti a Cagliari c’è già chi sta pensando a come raccogliere l’appello per aiutare nel lungo periodo i feriti più gravi, ma intanto Shevchuk già ringrazia la Chiesa italiana: «Vi siamo grati per l’accoglienza di tanti profughi ucraini, aiutateli a imparare la vostra bella lingua, hanno voglia di comunicare: scoprirete la ricchezza di gente dalla fede grande. Siamo un popolo credente, possiamo condividere con voi non solo il nostro dolore ma anche le nostre speranze e la nostra comune fragilità».